Ara : pappagalli giganti, lunghi anche un metro

Questi spettacolari uccelli possono raggiungere il metro di lunghezza. Per i loro vivaci colori vengono chiamati “fiori della foresta”. Scongiurata l’estinzione.

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Testo © Giuseppe Mazza

 

Per i loro vivaci colori in Venezuela gli ara sono chiamati “fiori della foresta” e a Panama raccontano che gli abitanti di un villaggio nei Caraibi si salvarono da un’incursione spagnola grazie alle acute grida di questi ucelli, eccitati dalle armature degli aggressori.

Realtà o versione americana delle leggendarie oche del Campidoglio, sta di fatto che gli ara posseggono una voce quanto mai sgraziata e assordante e che le foreste in cui vivono riecheggiano di continui “haa…raa” “haa…raa” come suggerisce il nome onomatopeico.

Questi uccelli possoino raggiungere, coda inclusa, il metro di lunghezza e posseggono un grande becco a uncino, che ricorda un po’ quello dei rapaci, di cui si servono come “terzo piede” per gli spostamenti sugli alberi.

Gli ara vivono in coppie molto stabili, unite per la vita, e all’alba si radunano in gruppi chiassosi in genere sempre nello stesso posto.

Dopo essersi riscaldati ai primi raggi del solee aver fatto il punto sulle zone da visitare, si levano tutti insieme in spettacolari voli fra gli alberi.

Vanno alla ricerca di frutti, semi e noci durissime che limano pazientemente col becco per estrarne il contenuto. Sembra si nutrano anche d’insetti, specialmente larve.

Se scoprono un albero ben fornito di cibo, si fanno improvvisamente muti, forse per non rivelarne la presenza ad altri animali, e si notano appena per un’incessante pioggerella di gusci e nòccioli che cadono al suolo.

Poi, verso mezzogiorno, quando il caldo diventa insopportabile, si portano sui rami bassi, lontano dalle pericolose arpieche sorvolano con altri rapaci le chiome della foresta, e riposano per qualche ora con la testa sotto l’ala.

Riprendono l’attività solo nel tardo pomeriggio, prima di raggiungere i rifugi notturni.

Ad eccezione dell’ara color giacinto (Anodorhynchus hyacinthinus), che nidifica in gallerie scavate lungo le sponde dei fiumi, questi uccelli si riproducono tutti in cima agli alberi, in vecchi tronchi cavi.

Ogni anno tornano sempre allo stesso nido e gli indios, che da secoli ne usano le piume per ornare armi e paramenti,considerano ancora oggi le piante che li ospitano come preziosi patrimoni di famiglia da tramandare di generazione in generazione.

Le uova, generalmente 2 o 3 , deposte ad intervalli di qualche giorno su legno marcio triturato, vengono covate dalla femmina per 25-28 giorni. I piccoli, nutriti con cibo rigurgitato, crescono molto lentamente. Per parecchi giorni sono cieche e le prime piume spuntano, sulla coda, solo nel secondo mese di vita. Gli ara sono molto longevi e in cattività superano facilmente i 40 anni.

Le specie più note, oltre al già citato ara color giacinto, tipico delle foreste brasiliane a sud dell’Amazzonia, sono l’ara macao (Ara macao), diffuso dal Messico alla Bolivia, l’ara dalle ali verdi (Ara chloroptera), presente da Panama alla Bolivia, e l’ararauna (Ara ararauna), comune da Panama all’Argentina. I maschi di questa specie, per niente timidi, si riconoscono a prima vista perché “arrossiscono” facilmente. Quando sono eccitati strizzano gli occhi, scuotono il capo e la pelle delle loro guance, normalmente bianca, si colora di un rosa intenso.

L’ara militare (Ara militaris), presente nella parte occidentale del continente dal Messico all’Argentina, deve il nome alla caratteristica divisa verde, sormontata da un ciuffetto rosso, ed ha una sgradevolissima voce “da caserma”. Si incontra nelle Ande, anche a 2500 metri d’altezza, e può adattarsi a tutti gli ambienti, dalle regioni semi-aride alle umide foreste amazzoniche.

Perseguitati dagli indigeni per la carne e le piume, e trasportati in Europa come oggetto di divertimento per ricchi e potenti, a partire dal XVIII secolo alcuni ara si sono purtroppo estinti.

Sono scomparsi gli ara rossi di Giamaica e Guadalupa, l’ara verde e giallo di San Domingo, e il celebre ara di Cuba.

Nel 1934, per l’opinione diffusa che i pappagalli trasmettessero la psittacosi, una grave malattia contagiosa per l’uomo, alcune leggi ridussero drasticamente l’importazione di queste specie, riuscendo così a frenarne l’estinzione.

Oggi si parla di ‘ornitosi” e si è scoperto che il batterio responsabile di questa affezione polmonare (Chlamydophila psittaci) è presente in almeno un centinaio d’uccelli, fra cui colombi, polli, anatre passeri e canarini, che si comportano da portatori sani, e che il contagio non dipende tanto dal tipo d’animale, ma dai rapporti che l’uomo ha con essi.

Così gran parte delle restrizioni sanitarie sono cadute, ma nel frattempo, grazie al crescente diffondersi delle idee sulla protezione della natura, è nata la convinzione nella gente che questi uccelli debbano essere lasciati in libertà.

La Convenzione di Washington sul commercio internazionale degli animali e la creazione di parchi nazionali nei paesi d’origine, sembrano proteggere oggi adeguatamente le specie superstiti.

 

 SCIENZA & VITA NUOVA – 1987

 

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