Ornitorinco : becco da papera, latte, e sperone velenoso

Questa è proprio una bestia rara. Ha il muso di una papera ma la pelliccia di un castoro, depone le uova ma allatta i piccoli, è mite ma può sfoderare l’arma del veleno, s’ammala per il minimo stress ma vive da tempi immemorabili. Tutto su questo rompicapo della natura.

 

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Testo © Giuseppe Mazza

 

Vi sono animali, come gli scorpioni, adatti ad ogni “stagione” geologica e praticamente immutati da 400 milioni d’anni, ma la maggior parte degli esseri viventi ha una storia tormentata, in cui le intuizioni felici e le riconversioni riuscite s’intrecciano a dure lotte e insuccessi.

Vicoli ciechi della vita, specie estinte, prontamente eliminate da un’evoluzione che non procede mai in linea retta, che non chiude mai tutte le porte, e avanza a zigzag, per tentativi.

Le origini si nascondono quasi sempre sotto gli inizi, e i ” prototipi ” non lasciano in genere traccia nei fossili.

Sappiamo che uccelli e rettili sono parenti stretti; ma questi dovevano essere molto diversi dagli attuali, e quando 200 milioni d’anni fa i primi mammiferi tentarono nuove strade, gli spartiacque fra i gruppi non dovevano essere molto precisi.

Rettili a sangue caldo, uccelli con la pelliccia, mammiferi che fanno le uova: la realtà doveva certamente superare la nostra immaginazione, anche se di tutte queste forme di passaggio, non è rimasto un gran che.

È come se fra cento milioni d’anni qualcuno volesse cercare nei fossili d’automobile i segni della nostra civiltà : affiorerebbe certamente il cofano della Volkswagen, qualche pezzo di Mini e qualche utilitaria prodotta per anni su grande scala, ma dei prototipi, delle traballanti vetture di Cugnot, Stafford o Panhard, non si troverebbe traccia.

Eppure ancora oggi, relegati nella regione australiana, vivono dei “mammiferi di passaggio”, incredibilmente sopravvissuti, in carne ed ossa, alla concorrenza delle specie più evolute.

Sono tutti ovipari, classificati nei “Monotremi” (letteralmente “unico foro”) perché, come per gli uccelli, gli anfibi e i rettili, le vie del loro apparato urogenitale e del canale alimentare convergono in un solo orifizio posteriore detto cloaca.

“Monotremes oviparous, ovum meroblastic”. È il celebre telegramma con cui, nel 1884, lo studioso Caldwell annunciava alla Società Zoologica Britannica riunita a Montreal, che l’ornitorinco (Ornithorhynchus anatinus) depone, come gli uccelli, delle uova col tuorlo.

E quando giunse in Europa il primo esemplare imbalsamato, al British Museum di Londra molti pensarono a uno scherzo : un castoro col becco d’anatra, due occhi minuscoli e le zampe palmate non pareva certo reale.

E in più, mi spiega Neil Morley, direttore del famoso Sir Colin MacKenzie Sanctary di Healesville, in Australia, l’unico posto al mondo in cui questi animali si sono riprodotti in cattività, i maschi possiedono come i serpenti, sulle zampe posteriori, una ghiandola velenifera collegata a uno sperone.

Questo grande parco zoologico, dedicato alla fauna australiana, possiede la più attrezzata “Platypus house” del mondo. Un complesso con una grande vasca d’esposizione in cui nuotano, ad ore fisse, un paio d’ornitorinchi.

Grandi pannelli murali ne illustrano la vita e l’anatomia, mentre un altoparlante spiega in parole semplici ai visitatori la biologia e il comportamento di questi incredibili animali. Due tunnels, giusto sopra il pelo dell’acqua, portano alle tane artificiali poste sul retro dell’edificio, in una zona tranquilla, chiusa al pubblico, e un’altra serie di gallerie le collega con delle pozze a cielo aperto, coperte da una grata.

Mentre le osservo, guidato dal direttore, arriva un inserviente che solleva l’inferriata e vi getta dentro il contenuto d’un secchio. Sembra spazzatura e chiedo incuriosito di che si tratta.

È il pasto per questa notte, mi precisa Neil Morley, a base di gamberi d’acqua dolce, larve di farina ed uova bollite impastate con del latte, iogurt e vitamine.

In natura gli ornitorinchi si nutrono soprattutto di crostacei, vermi e larve d’insetti che individuano sul letto dei fiumi, a occhi chiusi, col becco sensibilissimo, ricco di terminazioni nervose. Li raccolgono, come i criceti, in due grandi tasche guanciali, e poi affiorano, inghiottendo il bottino con un tonfo.

Non sono schizzinosi e si adattano, sorprendentemente, al cibo disponibile. Nel fiume Thredbo, per esempio, dove d’inverno la temperatura è molto bassa e occorre un notevole apporto energetico, non seguono più la dieta usata per millenni dai loro antenati, ma divorano le uova delle trote introdotte, di recente, dall’uomo. E da noi si abituano subito a questo strano menù, frutto di lunghe esperienze.

Poi mi racconta come, nel 1943, sono riusciti a riprodurli.

Il direttore d’allora, David Fleay, aveva messo una giovane coppia, Jack e Jill, in un complicato recinto che prevedeva, oltre alla solita vasca, uno spesso strato di terra soffice per scavare la tana.

All’età di circa sei anni Jack cominciò a corteggiare la compagna, nuotando con lei in cerchio e abbracciandola con la coda, secondo il rituale amoroso degli ornitorinchi. Poi, verso fine ottobre, questa scomparve nel nido per riaffiorare quattro mesi più tardi, trionfante, accompagnata dai piccoli.

E in genere quanto vivono? lo interrompo.

In natura circa 12 anni, ma Jack raggiunse i 17 anni; il massimo registrato in cattività, e Jill sfiorò i 10. Oggi abbiamo due esemplari, ben ambientati, di 2 e 7 anni, ma la maggior parte di quelli che ci portano, muoiono dopo pochi giorni.

Perché stentano ad adattarsi ?

No, semplicemente perché quando ci arrivano sono già in pessime condizioni. Noi non cacciamo ornitorinchi per il Santuario: i nostri ospiti sono tutti dei trovatelli raccolti dalla gente per strada.

Vi è uno stretto rapporto fra l’ambiente, con le sue risorse alimentari, ed il numero d’ornitorinchi. E quando il cibo scarseggia i giovani vengono costretti a cambiare zona. Alcuni sono fortunati, ma i più non sanno dove andare : si perdono e muoiono di fame o per lo stress.

Gli ornitorinchi mantengono un difficile equilibrio con numerosi parassiti interni e basta spesso un “niente” per ucciderli.

È come se uno di noi vivesse con un “raffreddore permanente” : finché non fa sforzi tutto va bene, ma al primo surmenage o colpo di freddo, questa banale affezione può diventare mortale.

E il veleno?

Certamente, continua Neil Morley, è un retaggio dei rettili. Quando cerchiamo d’immobilizzarli, i maschi si divincolano violentemente e più di un “keeper” è finito all’ospedale per le loro pericolose punture.

Possono uccidere facilmente un cane, e nell’uomo provocano forti dolori, capogiri e invalidità, più o meno gravi, che possono anche durare dei mesi.

Gli aculei, cavi come l’ago di una siringa, penetrano profondamente nella carne e spesso la vittima, sanguinante e sotto shock, non riesce nemmeno a staccarsi l’animale che mantiene ostinatamente la presa per dar tempo al veleno d’entrare.

Non si sa ancora bene a cosa serva un’arma tanto potente in un mammifero pacifico e privo di nemici come l’ornitorinco.

In un primo momento, visto che la produzione di veleno raggiunge il massimo in agosto, nel periodo degli amori, si credeva servisse a “soggiogare” le femmine recalcitranti, predisponendole all’accoppiamento.

Poi si è notato che, in genere, sono queste che prendono l’iniziativa, con una corte serrata, e si è quindi concluso che, o si tratta un’arma oggi inutile, nata in passato per combattere dei nemici ormai estinti, o che gli ornitorinchi hanno una sorta di organizzazione sociale con dei maschi dominanti che lottano, col veleno, per il possesso delle femmine.

Queste infatti non si riproducono regolarmente, e nelle annate “cattive” sarebbero alquanto contese.

Ma è vero, chiedo ancora, che non hanno capezzoli e trasudano il latte dalla pelle ?

Dato che anche i piccoli hanno il becco, continua Neil Morley, un capezzolo tradizionale non avrebbe senso, ma le ghiandole mammarie delle femmine, di solito non più grandi di un centimetro, durante l’allattamento superano anche i 13 cm di lunghezza (circa un terzo dell’animale), estendendosi dal ventre fino al dorso.

Le areole, molto simili a quelle umane, recano numerosi piccoli fori (i pori mammari) e sono ricoperte da un fitto pelo. Quando i piccoli le eccitano con colpi di becco, il latte, denso e molto nutriente, viene spruzzato fuori e cola, lungo i peli in modo che possano succhiarlo col becco.

Uno spettacolo certamente buffo che si svolge lontano da occhi indiscreti, nell’intimità del nido. Alla nascita, dopo 11-12 giorni d’incubazione, i giovani ornitorinchi misurano appena 15 mm, ma nei tre mesi e mezzo di tana raggiungono già i 37-41 cm di lunghezza: l’ 80 % della taglia dei genitori.

Questa incredibile crescita lampo, nel nido, è collegata al particolare sviluppo della tiroide e un sangue, ricchissimo di globuli rossi e d’emoglobina, capace di fruttare a fondo lo scarso ossigeno presente nel sottosuolo.

Le uova, grandi 14 x17 mm, sono bianche, con un guscio non calcareo, fatto di cheratina, come i peli e il becco.

Nessuno le ha mai viste schiudere e non si sa nemmeno bene come vengono covate. Probabilmente le femmine le tengono appoggiate al ventre, con la coda ripiegata sul becco, nella stessa posizione, che adottano durante il sonno per ridurre al minimo le dispersioni di calore.

L’echidna (Tachyglossus aculeatus) e lo zaglosso (Zaglossus bruijnii), i rappresentanti più noti degli altri due generi dei monotremi, hanno un aspetto completamente diverso. Simili a ricci, si nutrono di formiche, termiti e altri insetti, e covano le uova in una sorta di marsupio ventrale, un’intuizione felice che verrà poi sviluppata dai canguri.

Pur appartenendo a linee evolutive diverse, questi autentici fossili viventi, dividono l’invenzione della pelliccia e del latte con l’ornitorinco e molti altri “prototipi”, a noi ignoti, che si sono estinti milioni d’anni fa.

La natura non è decisamente tenera con i pionieri e, almeno in libertà, anche queste specie hanno le ore contate, per la concorrenza dei più evoluti mammiferi placentati introdotti dall’uomo nel loro ambiente.

 

 NATURA OGGI  +  SCIENZA & VITA NUOVA  – 1986