Piper betle

Famiglia : Piperaceae


Descrizione e coltivazione © Pietro Puccio

 

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Coltivato da tempi remoti, il Piper betle si suppone originario dell’area indo-malese © Giuseppe Mazza

Coltivato da tempi remoti per l’uso masticatorio delle foglie non si conosce l’esatto luogo di origine, si suppone l’area indo-malese, dove è presente nelle foreste umide fino a circa 900 m di altitudine.

Il nome del genere è quello latino, “piper, -eris” = pepe, della spezia ricavata dai frutti del Piper nigrum L.; il nome specifico deriva da quello in lingua malayalam “vettila”.

Nomi comuni: betel, betel pepper, betel vine (inglese); tanbol (arabo); pan (bengalese); kun (birmano); lou ye (cinese); betél (francese); paan, tambuli (hindi); sirih, suruh (indonesiano); betel (italiano); villaya (kannada); maluu (khmer); pu (laotiano); sirih (malay); vettila (malayalam); bétele (portoghese); bhakshyapatra, bhujangalata, nagavalli, parna, tambula (sanscrito); bulath (singalese); betel, pimienta betel (spagnolo); vetrilai (tamil); tamalapaku (telugu); plū (thailandese); trầu, trâu luong (vietnamita).

Il Piper betle L. (1753) è un rampicante sempreverde dioico con fusti dicotomi parzialmente lignificati e ingrossati ai nodi, fino a 15 m di lunghezza e 3-5 mm di diametro, che aderiscono al supporto tramite radichette avventizie prodotte in corrispondenza dei nodi.

Le foglie, su un picciolo leggermente pubescente lungo 1,5-8 cm, sono alterne, semplici, oblungo-ovate con apice appuntito, base cordata, margini interi e 5-7 nervature prominenti, di colore verde intenso o giallo verdastro e lucide superiormente, verde chiaro inferiormente, piuttosto coriacee, aromatiche, di 6-16 cm di lunghezza e 4-12 cm di larghezza.

Le infiorescenze, prodotte ai nodi dal lato opposto della foglia su un peduncolo lungo 2-3 cm, sono spighe con numerosi minuscoli fiori biancastri o giallo-verdastri, privi di sepali e petali, fittamente disposti lungo il rachide, quelle maschili semipendenti, cilindriche, di 7-14 cm di lunghezza e 2-3,5 mm di diametro, quelle femminili, pendenti, cilindriche, di 3-8 cm di lunghezza e 0,5-1 cm di diametro.

I frutti sono drupe carnose, di circa 2 mm di diametro, fuse insieme al rachide a formare un frutto composto (sincarpo) cilindrico, carnoso, inizialmente di colore verde, poi arancio rossastro a maturità.

Si propaga per seme, ma solitamente le numerose varietà che sono state selezionate nel tempo vengono riprodotte per talea.

La specie necessita di un clima caldo con elevata umidità atmosferica, suoli profondi, friabili, argillosi, ricchi di sostanza organica, permanentemente umidi, e una esposizione ombreggiata, la sua coltivazione è quindi limitata alle regioni tropicali, e marginalmente subtropicali, con elevata piovosità annua.

In coltivazione si utilizzano diverse specie arboree e palme (solitamente Areca catechu L. e Cocos nucifera L.) come supporto, limitando l’altezza, con opportune potature, a circa 2 m per facilitare la raccolta delle foglie.

L’uso di masticare il “betel”, ovvero foglie di Piper betle che avvolgono pezzetti di seme (noce) di areca (Areca catechu L.) e calce spenta (idrossido di calcio), come stimolante, antisettico e rinfrescante della bocca, è diffuso da tempi remoti dall’India, Sri Lanka, Cina meridionale, Indocina, Malaysia, Arcipelago Malese fino alle Filippine.

La calce spenta viene ottenuta dalla calcinazione di conchiglie, corallo o rocce calcaree e ai tre ingredienti principali sono eventualmente aggiunti tabacco e spezie di vario tipo; tale miscela, oltre a provocare una abbondante salivazione, dà ai denti e alla bocca un caratteristico colore rosso intenso. Malgrado le numerose ricerche scientifiche che dimostrerebbero che tale abitudine può provocare diversi effetti dannosi, fino a lesioni precancerose nella bocca, si stima che circa il 10% della popolazione mondiale ne fa attualmente (2016) uso.

Le foglie, sufficientemente mature e sane, vengono raccolte a mano con una porzione di picciolo, lavate, divise per grandezza e colore e impacchettate in canestri di bambù con le pareti interne rivestite di foglie, in genere di banano per mantenerle fresche, e vendute nei mercati. Oltre che per preparare il “betel”, le foglie, sia crude che cotte, sono ampiamente utilizzate per aromatizzare numerose pietanze tipiche del sudest asiatico; anche le infruttescenze carnose vengono consumate in alcuni paesi. La pianta ha inoltre un ruolo importante nella medicina tradizionale, in particolare indiana, per numerose patologie; studi di laboratorio hanno evidenziato negli estratti delle foglie la presenza di diversi composti bioattivi con attività antiossidanti, antibatteriche e antinfiammatorie di possibile impiego nella farmacopea ufficiale.

Sinonimi: Piper betel Blanco (1837); Betela mastica Raf. (1838); Cubeba seriboa Miq. (1840); Chavica auriculata Miq. (1843); Chavica betle (L.) Miq. (1843); Chavica chuvya Miq. (1843); Chavica densa Miq. (1843); Chavica siriboa Miq. (1843); Artanthe hexagyna Miq. (1844); Piperi betlum (L.) St.-Lag. (1880); Piper rubroglandulosum Chaveer. & Mokkamul (2008).

Le foglie, che avvolgono frammenti di semi di Areca catechu, componente principale con calce spenta, cui talora si aggiungono spezie e tabacco, vengono localmente vendute per la masticazione col nome di “betel”, ritenuto stimolante, antisettico e rinfrescante. Malgrado i rischi cancerogeni e la colorazione della bocca di rosso con disgustosi sputi ed il tipico annerimento dei denti, si stima venga consumato dal 10% della popolazione mondiale. Le foglie di Piper betle mostrano invece virtù medicinali © Giuseppe Mazza


Effetti neurologici e tossicologici del betel © Prof. Giorgio Venturini

 

Chi mastica il betel riferisce di percepire un senso di benessere, euforia, aumentata vigilanza, miglioramento della capacità lavorative, sensazione di calore, sudorazione e aumento della salivazione. L’uso del betel induce assuefazione e dipendenza.
Non ostante l’enorme diffusione dell’uso di questa droga il suo meccanismo di azione è ancora compreso solo in parte.
Le tre componenti del “betel” o “paan”, e cioè le foglie del Piper betle, il seme di Areca catechu (la cosiddetta Noce di betel) e l’idrossido di calcio (o altre sostanze basiche come il bicarbonato di sodio), svolgono ruoli complementari nell’azione della droga. Si deve ricordare che il medesimo uso della calce è comune tra coloro che masticano le foglie di coca.

Il componente principale è il seme di Areca catechu che contiene alcuni alcaloidi come l’arecolina, arecaidina o la guvacolina. La prima sostanza ha una potente azione parasimpaticomimetica, stimolando i recettori per il neurotrasmettitore acetilcolina e questo spiega la attività stimolante sul sistema nervoso centrale della droga oltre che la stimolazione della salivazione e la azione digestiva. L’ Areca catechu svolge anche azione antielmintica.
Dal momento che il seme di areca contiene tannini astringenti, nell’uso tradizionale viene associato ad altri vegetali, come appunto le foglie di betel, che stimolano la salivazione e conferiscono un sapore migliore alla miscela attenuando l’effetto astringente.

Le foglie del Piper betle contengono però dei composti fenolici che stimolano le funzioni di altri neurotrasmettitori, cioè le catecolamine.

La aggiunta calce o di altre sostanze basiche, alcalinizzando la saliva, facilita l’estrazione degli alcaloidi e ne aumenta la assimilazione, ma soprattutto modifica chimicamente alcune delle sostanze presenti nell’areca producendo composti dotati di diverse attività farmacologiche. L’arecolina e la guvacolina dell’ Areca catechu vengono trasformate in arecaidina e guvacina, che interagiscono con le funzioni di un importante neurotrasmettitore del sistema nervoso centrale, il GABA.

In complesso quindi masticare il betel interferisce con molte funzioni sia del sistema nervoso centrale che di quello autonomo. Questo insieme complesso di azioni farmacologiche è probabilmente alla base dei meccanismi psicoattivi che spiegano la popolarità dell’uso di questa droga che non mostra riduzione fin dalla remota antichità.

Sia la noce di Areca catechu che le foglie del betel hanno attività mutagena, cancerogena e genotossica, ben dimostrate in esperimenti su animali da laboratorio. Per quanto riguarda l’uomo diversi studi epidemiologici mostrano una associazione dose- e tempo-dipendente tra l’uso del betel e lesioni precancerose orali o cancri della faringe, della laringe e dell’esofago. Anche la aggiunta di calce alla miscela contribuisce ad aumentare il rischio di cancro, dal momento che può stimolare nel betel la produzione di nitrosamine, potenti sostanze cancerogene.

Il British Medical Journal ha stimato che l’abitudine di masticare il betel sia responsabile della metà da casi di cancro alla bocca che si verificano in India. Un ulteriore importante effetto dannoso del betel, riportato dalla American Dental Association, è dato dal forte aumento della fibrosi sottomucosa orale, una condizione incurabile che conduce a rigidità della muscolatura della bocca fino alla perdita della mobilità della mandibola. Inoltre l’uso del betel, oltre a macchiare i denti, danneggia le gengive con aumento della carie e della caduta dei denti. Si deve infine ricordare che l’uso da parte di donne gravide esercita una seria azione embriotossica.

Complessivamente alcuni studi suggeriscono che il masticare regolarmente il betel possa aumentare il rischio di cancro di circa 8-9 volte ed abbrevi la vita media di circa 6 anni.

Il betel e la letteratura

La grande diffusione in asia dell’uso del betel, con la sua conseguenza vistosa di denti macchiati e di abbondante salivazione color sangue ha colpito la fantasia di autori di racconti ambientati in paesi orientali, da loro visitati (come Conrad) o solo sognati (come Salgari) e nel nostro immaginario di lettori l’oriente è popolato di gente con la guancia rigonfia dal bolo di betel, impegnata a emettere getti di saliva scarlatta

Emilio Salgari, “I Pirati della Malesia” :

Alcuni di quegli uomini masticavano il siri, composto di foglie di betel e di noci d’areca, lanciando sul pavimento sputi sanguigni.

Oppure “I misteri della jungla nera” :

Tremal-Naik … trasse da una tasca una foglia somigliante a quella dell’edera, conosciuta in India sotto il nome di betel d’un sapore amarognolo e un poco pungente, vi unì un pezzetto di noce di arecche e un po’ di calce e si mise a masticar questo miscuglio che vuolsi conforti lo stomaco, fortifichi il cervello, preservi i denti e curi l’alito.

O ancora Joseph Conrad “La Follia di Almayer” :

E tutt’e due rimasero a sedere lì nella stretta eppur silenziosa comunione dei masticatori di betel, muovendo le mascelle lentamente. Sputando decorosamente nel largo recipiente di ottone che si passavano l’un l’altro…

 

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