Zea mays

Famiglia : Poaceae

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Testo © Prof. Giorgio Venturini

 

Il Mais (Zea mays L., 1753) è una monocotiledone della famiglia Poaceae (Graminaceae).

Il nome del genere Zea deriva dal greco “zea”  (ζέα o ζειά) che  indica la spelta, il frumento o altre graminacee dai semi commestibili, mentre  in nome  specifico “mais” deriva  dalla parola  “mahiz” nella lingua taina, o “arawak” delle isole, che  in passato veniva parlata da molte popolazioni caraibiche.

Si deve sottolineare che il mais non esiste allo stato selvatico ma deriva da una sapiente opera di selezione e di incroci effettuata dalle popolazioni precolombiane dell’America Centrale a partire da antenati selvatici la cui identità è ancora oggi oggetto di discussione.

Nel genere Zea sono comprese sei specie, mentre la specie Zea mays comprende quattro sottospecie (Zea mays huehuetenangensisZea mays mexicanaZea mays parviglumis e Zea mays mays).

Zea mays mays è la forma domesticata, coltivata in tutto il mondo, mentre le altre tre sottospecie, morfologicamente e fisiologicamente assai diverse dall’ultima, sono considerate tra le possibili antenate del mais coltivato. In Italia, a seconda delle regioni, oltre al nome di mais vengono utilizzati nomi diversi come ad esempio granoturco, frumentone, formentone, sorgoturco, granone, granturco, meliga, grano d’India, formentazzo.

Zea mays è indubbiamente fra le piante che hanno fatto la storia dell’umanità

Zea mays è indubbiamente fra le piante che hanno fatto la storia dell’umanità © Giuseppe Mazza

Con oltre un miliardo di tonnellate è attualmente, come produzione mondiale annua, il primo dei cereali, seguito da riso e grano anche se, diversamente dagli altri due cereali, una quota importante è destinata ad usi diversi dalla alimentazione umana. Primo produttore a livello mondiale sono gli Stati Uniti d’America, seguiti dalla Cina, ma praticamente questa pianta viene coltivata in tutto il mondo e rappresenta una risorsa alimentare e economica di primaria importanza.

Morfologia e riproduzione

Il Mais è una pianta erbacea di grandi dimensioni che misura comunemente 1,5-3 m di altezza. Alcune varietà precocissime possono però essere alte solo 90 cm e alcuni mais da pop-corn non superano i 30-50 cm mentre, in regioni sub-tropicali e tropicali, alcune varietà possono arrivare a 6-7 m di altezza o addirittura oltre i 10 m.

La pianta del mais presenta molti caratteri comuni alle altre Poaceae: come nel bambù o nella canna lo stelo, detto anche fusto, culmo o stocco, è distinto in nodi e internodi; ciascun nodo porta una singola foglia e le foglie sono alterne, distribuite sul culmo in due file opposte. I nodi basali hanno la tendenza a formare ramificazioni o culmi di accestimento (polloni) e sviluppano radici avventizie.

Il fusto, nelle varietà coltivate in Europa, ha in genere un diametro di 3-4 cm e possiede da 8 a 21 internodi. Gli internodi sono ravvicinati e di diametro maggiore alla base della pianta mentre sono più distanziati nella parte superiore. Il numero delle foglie è compreso fra 8 e 48, considerando anche quelle degli eventuali polloni, ma solitamente varia fra 12 e 18. La lunghezza delle foglie è compresa fra 30 e 150 cm e la larghezza può raggiungere 15 cm. Ogni  foglia presenta tre parti ben distinte: la guaina, che abbraccia quasi completamente l’internodo sovrastante il nodo di origine ed è ben visibile a partire dallo stadio di sesta foglia quando inizia l’allungamento del culmo; il lembo o lamina, che rappresenta la foglia vera e propria, di forma lanceolata con nervature longitudinali parallele di cui quella mediana più grossa; la ligula, un’espansione laminare a guisa di membrana incolore  e pellucida, posta tra guaina e lembo, che fascia strettamente lo stocco, ostacolando l’entrata dell’acqua o di eventuali parassiti e permettendo la posizione più o meno orizzontale della lamina.

Il mais è una pianta monoica diclina: ciò vuol dire che la stessa pianta porta sia i fiori maschili che quelli femminili, contenuti però in infiorescenze separate. Dal momento i fiori dei due sessi sulla stessa pianta maturano in momenti leggermente sfalsati, in genere non si verifica una autofecondazione se non in pochissimi casi (si stima meno del 5%).

Le denominazioni comuni della infiorescenza femminile e di quella maschile sono errate da un punto di vista di terminologia botanica: l’infiorescenza femminile, comunemente definita pannocchia, è in realtà una spiga, o meglio uno spadice, mentre l’infiorescenza maschile, apicale, in genere detta spiga o pennacchio, è da definirsi una pannocchia o panicolo.

Zea mays, Poaceae, Granoturco

Un piccolo campo arato seminato a mais. Immagine contadina d’altri tempi come questo campanile lombardo © Gianfranco Colombo

Adeguandoci alla consuetudine qui useremo in nome comune di pannocchia per l’infiorescenza femminile, per intenderci quella che porta le cariossidi, cioè i chicchi commestibili (semi o granella).

L’infiorescenza maschile si trova all’apice della pianta e presenta più o meno numerose ramificazioni che portano numerosissime spighette.

In ogni spighetta sono presenti due fiori, ciascuno con tre stami, composti da un filamento e una antera che a maturazione sporge fuori dal fiore. Spesso uno dei due fiori è abortivo. In totale l’infiorescenza maschile porta tra 1000 e 2000 fiori. Dal momento che ognuno degli stami produce migliaia di granuli di polline, ogni pianta potrà produrre molti milioni di granuli.

L’infiorescenza femminile, quella che comunemente viene chiamata pannocchia, è situata all’ascella di una foglia, con un breve peduncolo con nodi molto ravvicinati. Da ogni nodo del peduncolo emerge una brattea, cioè una foglia modificata, che avvolge l’infiorescenza. L’insieme di questa brattee forma il cartoccio.

Il numero di pannocchie prodotto da ogni pianta è molto variabile a seconda della varietà e delle condizioni colturali. Nella maggior parte dei casi viene prodotta una sola pannocchia o due, ma particolari cultivar possono produrre anche 10 o più pannocchie, come nel caso delle mini pannocchie (baby corn) usate per insalate o aperitivi.

In genere lungo il fusto si formano abbozzi di infiorescenze femminili all’ascella fogliare di ciascuno dei nodi fino al dodicesimo o quattordicesimo, ma normalmente soltanto quello (o quelli) più in alto si svilupperà completamente per produrre una pannocchia. Oggi, rispetto al passato, è facile riscontrare anche più spighe perché su questo carattere molto ha influito il miglioramento genetico.

La pannocchia ha un asse centrale approssimativamente cilindrico lungo in genere 10-30 cm (in alcuni casi fino a oltre 40 cm), detto tutolo, che porta le spighette, inserite in modo più o meno regolare in file verticali. Le file sono in numero variabile a seconda della cultivar, in genere tra 8 e 24. Il numero totale di spighette, e quindi di potenziali cariossidi, varia da qualche centinaio a circa 1000. Ogni spighetta contiene un ovario e da ogni ovario emerge un lunghissimo stilo, la barba o seta, che termina con lo stimma, lungo circa 1 cm. La seta è dotata di sottilissimi peli (tricomi), particolarmente abbondanti sullo stimma, che hanno la funzione di trattenere il polline.

Le sete o barbe iniziano a svilupparsi negli ovari più vicini alla base della pannocchia e poi gradualmente in quelli più apicali, quindi le prime sete che emergono dal cartoccio sono quelle basali.

L’enorme lunghezza dello stilo, che può superare i 30 cm, ci deve far riflettere sul fatto che, al momento dell’impollinazione, dal granulo pollinico dovrà emergere un tubulo pollinico capace di percorrere tutto lo stilo fino a raggiungere l’ovulo cui condurrà la cellula spermatica. Gli ovuli fecondati saranno le cariossidi commestibili del mais.

Zea mays, Poaceae, Granoturco

E il chicco di granoturco spunta ancora, sollevando le pietre con una forza incredibile. Zea mays è un’erba alta 1,5-3 m che ai tropici può raggiungere i 10 m © G. Colombo

Impollinazione e fecondazione

La fioritura maschile e femminile sono sfalsate nel tempo: la liberazione del polline da parte dell’infiorescenza maschile precede di 2 o 3 giorni la comparsa degli stili femminili (è una specie proterandra). La sfasatura temporale tra la maturazione dell’infiorescenza maschile e di quella femminile rende molto rara l’autofecondazione, che però può essere  eseguita artificialmente. La liberazione del polline dura in genere circa una settimana, più raramente fino a due settimane, con un massimo di liberazione intorno al terzo giorno dall’inizio. La diffusione dei granuli pollinici, emessi come abbiamo già detto in numero enorme, avviene grazie al vento e alla gravità (impollinazione anemofila). A causa del loro peso relativamente elevato i granuli pollinici in genere non si spostano per distanze superiori ai 10-20 metri dalla pianta che li ha rilasciati. Soltanto pochi granuli, in caso di vento forte, possono essere trasportati per 100-200 m.

In genere le sete emergono dal cartoccio entro 2-3 giorni dalla loro nascita dall’ovario, ma, nel caso di pannocchie molto lunghe, il tempo richiesto può essere maggiore e per questo la parte apicale della pannocchia può risultare scarsamente impollinata. Le sete si allungano di 2-3 centimetri al giorno e continuano a crescere fino a quando vengono impollinate o fino alla senescenza. Normalmente una singola seta rimane vitale per circa 10 giorni, ma dal momento che le sete non emergono simultaneamente, in ogni pannocchia potremo trovare sete impollinabili per circa 14 giorni.  La comparsa sfasata delle sete apicali o basali comporta che spesso nella pannocchia troveremo più spesso fertilizzati gli ovuli basali e meno quelli apicali.

Zea mays, Poaceae, Granoturco

Come nel bambù, lo stelo presenta nodi e internodi. Ciascun nodo porta una singola foglia e le foglie sono alterne su due file. I nodi basali sviluppano radici avventizie © Gianfranco Colombo

Le sete sono recettive non appena emergono dalle brattee. Quando il polline aderisce alla superficie umida di una seta viene catturata dai tricomi, esili villosità presenti sullo stigma, e inizia a germinare formando il tubetto pollinico che penetra nello stilo e scende nel tessuto vascolare verso l’ovario che raggiunge in genere entro 24 ore. Spesso i granuli vengono portati dal vento sulle foglie ma poi rotolano via fino ad essere intercettati dalle sete. I granuli di polline che giungono sugli stili aderiscono grazie ad un meccanismo di riconoscimento chimico specie-specifico. Dopo che almeno un granulo di polline si è ancorato sulla seta sono necessari ancora diversi passi importanti per arrivare alla fecondazione. Il granulo pollinico contiene due cellule, una dei quali genera il tubulo pollinico, mentre l’altra si divide producendo due cellule spermatiche che, percorrendo il tubulo raggiungono l’ovario. Qui una delle due cellule spermatiche feconderà l’ovulo producendo l’embrione, mentre l’altra si unirà ai due nuclei polari femminili per produrre una cellula triploide che formerà l’endosperma della cariosside, cioè l’accumulo di riserve alimentari (in pratica quello di cui noi ci nutriamo quando mangiamo i chicchi di mais). Questo fenomeno è detto doppia fecondazione ed è tipico delle angiosperme.

Anche se più granuli pollinici possono germinare su ogni seta, soltanto un tubulo pollinico giunge a fertilizzare l’ovulo. Entro uno o due giorni le sete impollinate si essiccano e divengono marroni. L’impollinazione è un processo continuo e interessa le sete man mano che emergono. Le condizioni ambientali influenzano la riproduzione. Sia la durata dell’emissione del polline che la sua quantità sono influenzati dalle condizioni climatiche. In genere l’emissione inizia al mattino, con l’aumentare della temperatura e continua per circa 8 giorni in ciascuna infiorescenza.

Zea mays, Poaceae, Granoturco

Un campo con vistose infiorescenze maschili all’apice delle piante. Ogni infiorescenza porta 1000-2000 fiori carichi di polline per 1-2 settimane © Giuseppe Mazza

A causa della variabilità individuale tra piante in uno stesso campo coltivato la emissione complessiva può durare circa 2 settimane. In condizioni di caldo eccessivo o di siccità la vita delle sete può risultare abbreviata, infatti a causa della loro enorme lunghezza ed esilità le sete sono molto esposte alla perdita di acqua, che può comprometterne la funzionalità nella fecondazione. Inoltre non sempre una fecondazione porta alla produzione di un chicco. Se nelle settimane successive alla fecondazione, a causa di condizioni ambientali sfavorevoli l’attività fotosintetica risulta ridotta, gli ovuli fecondati possono abortire. Questo si verifica più comunemente negli ovuli più giovani, posti all’apice della pannocchia. È possibile distinguere i chicchi abortivi dagli ovuli non fecondati dalla presenza nei primi di un accumulo di amido che invece manca nei secondi.

Origini del mais

Secondo gli studi archeologici la storia del mais moderno risale ai primordi dell’agricoltura, circa 9.000-10.000 anni or sono. Probabilmente furono i primi agricoltori di una regione dell’attuale Messico, la valle del Rio Balsas, a dare inizio a un processo di miglioramento di un cereale spontaneo o di un ibrido. Questi agricoltori verosimilmente selezionavano per la semina i chicchi delle piante con caratteristiche più desiderabili, ottenendo via via piante con pannocchie più grandi, con più semi e più facilmente coltivabili, fino a generare il moderno mais. Dalle regioni di origine il mais si è rapidamente sia verso nord, nelle regioni meridionali degli attuali Stati Uniti, sia verso sud, attraversando l’istmo di Panama, probabilmente circa 7500 anni or sono. Il mais era ampiamente diffuso nella parte settentrionale del Sud America intorno ai 6000 anni fa.

Zea mays, Poaceae, Granoturco

Il mais è una specie proterandra. L’autofecondazione delle infiorescenze femminili, poste in basso, è infatti rarissima perché sono ricettive solo quando quelle maschili hanno ormai già disperso quasi tutto il polline © Giuseppe Mazza

I dati archeologici suggeriscono che i principali cambiamenti che diedero origine al mais moderno si erano già verificati almeno 6500 anni or sono.

La diffusione del mais dalle regioni del Rio Balsas sia verso Nord che verso Sud è stata resa possibile dalla sua capacità di adattarsi a condizioni ambientali molto diversificate. La sua adattabilità è testimoniata dal fatto che oggi cresce in un areale molto più ampio di ogni altra pianta coltivata.

L’identità dell’antenato del mais è rimasta sconosciuta per secoli, dal momento che allo stato selvatico non conosciamo alcuna pianta che assomigli realmente al moderno granturco, al contrario di quanto avviene ad esempio per il riso o per il grano.

Grazie a studi condotti a partire dagli anni ’30 del XX secolo, corroborati più recentemente degli studi di genetica, si è individuato il probabile antenato nel Teosinte, una pianta o meglio un gruppo di specie, presenti allo stato selvatico in America. La parola teosinte, ”teocintli” nella lingua Nahuatl degli Aztechi significa “pannocchia sacra” (teotl = sacro, cintli = pannocchia secca).

Molti studiosi usano indicare come Teosinte tutte le specie e sottospecie di Zea selvatiche che crescono in Messico e in altri paesi dell’America centrale, cioè Zea diploperennis, Zea perennis, Zea luxurians e le tre sottospecie selvatiche di Zea mays, considerate i veri Teosinte: Zea mays huehuetenangensis, Zea mays mexicana, Zea mays parviglumis. Zea mays mays è il mais coltivato.

I Teosinte sono morfologicamente assai poco simili al mais coltivato: le differenze infatti sono tali per cui i tassonomi in passato avevano attribuite le due piante a generi diversi. L’infiorescenza femminile del teosinte produce soltanto 5-12 cariossidi, ricoperte da un tegumento (pericarpo) ricco di silice e di lignina assai duro e che si disseminano spontaneamente a maturazione, mentre il mais moderno ne ha parecchie centinaia, prive di involucro duro e fortemente aderenti al tutolo in modo tale da non potersi disperdere. Per questo motivo il mais è strettamente dipendente da l’uomo per la disseminazione e per la protezione dai predatori. Da un punto di vista genetico le due specie sono però sorprendentemente simili, hanno lo stesso numero di cromosomi con analoghe disposizioni dei geni e le sequenze del DNA sono molto simili. Inoltre mais e teosinte possono ibridarsi producendo ibridi fecondi.

Anche se il mais è attualmente la pianta più coltivata al mondo, e quindi ampiamente studiata, i biologi non sono ancora riusciti a chiarire completamente come un’erba selvatica con una spiga piccola, con pochi piccoli semi durissimi che si disperdono spontaneamente, si possa essere trasformata nel mais moderno, che produce centinaia di grandi chicchi masticabili e che rimangono aderenti al tutolo. Con la domesticazione il mais ha perduto la capacità di auto-propagarsi ed è divenuto quindi dipendente dall’uomo per la sopravvivenza. I dati archeologici non aiutano a risolvere il problema, poiché i più antichi reperti di mais hanno già la maggior parte dei caratteri fondamentali del mais domestico. Un’ipotesi prevede che il mais si sia evoluto a partire dal teosinte Zea mays parviglumis per selezione di una serie di mutazioni cumulative a carico di pochi geni. È anche possibile che altre specie di teosinte abbiano contribuito al genoma del Mais moderno con la produzione di ibridi che sarebbero stati selezionati dagli antichi agricoltori (alcune varietà di mais contengono numerosi geni derivati da Zea mais mexicana). Ancora oggi in Messico molti contadini seminano del teosinte lungo i margini dei campi di mais poiché sono convinti che il polline di queste piante possa fecondare il mais e migliorarne la resistenza ai patogeni.

Zea mays, Poaceae, Granoturco

Ingrandimento di un’infiorescenza maschile. Ogni spighetta reca due fiori, ciascuno con tre stami, composti da un filamento e una antera carica di polline © Giuseppe Mazza

Un’ipotesi alternativa, avanzata alcuni decenni or sono e recentemente ripresa in considerazione, propone che il mais sia nato in seguito alla selezione operata dall’uomo di ibridi spontanei tra il teosinte e un’altra Poacea perenne ad esso imparentata che cresce spontanea in un ampio areale tra nord e sud America, il gamagrass (Tripsacum spp.). Esistono numerose specie di Tripsacum che vengono utilizzate come foraggio. I semi hanno un alto contenuto proteico e negli ultimi anni si sta sviluppando la coltivazione di queste piante per la produzione di farine di alta qualità e di olio destinati all’alimentazione umana.

Dall’incrocio tra Tripsacum dactyloides e un teosinte (Zea diploperennis), si ottengono degli ibridi pienamente fertili dotati di caratteri morfologici molto simili ai più antichi reperti archeologici di mais domestico. Questi ibridi posso a loro volta ibridarsi con in mais, il che permette un flusso genico tra Tripsacum e mais che potrebbe dar luogo a importanti miglioramenti nella coltivazione del mais, in termini di maggiore resistenza alla aridità o alle malattie e di migliore contenuto proteico delle cariossidi. Anche analisi molecolari, che dimostrano la presenza nel mais di sequenze di DNA tipiche del teosinte e di altre tipiche del Tripsacum favoriscono questa ipotesi.

Quali sono stati i principali cambiamenti che hanno trasformato il teosinte in mais?

Il teosinte disperde liberamente il polline e le cariossidi: queste cadono al suolo dove possono attecchire e inoltre, se inghiottite da qualche animale, grazie alla buccia (pericarpo) dura e indigeribile, verranno disperse con le feci.

Zea mays, Poaceae, Granoturco

Una pannocchia di granoturco con numerosi lunghissimi stili rossi, che partono dagli ovuli © Giuseppe Mazza

Con la domesticazione il teosinte ha mantenuto la capacità di disperdere il polline nell’aria, ma ha modificato altri caratteri che lo rendevano più adatto all’uso umano. La buccia del granello, ricca di silice e di lignina, è diventata più morbida e quindi masticabile, il diametro del tutolo è aumentato, portando così un maggior numero di file di cariossidi e queste non vengono più disperse, ma rimangono attaccate al tutolo richiedendo l’intervento umano per essere staccate. Le brattee, cioè il cartoccio, sono più robuste ed evitano che uccelli e altri predatori possano nutrirsi dei chicchi. Mentre il teosinte presenta numerose ramificazioni, ciascuna delle quali termina con una infiorescenza maschile, il mais manca del tutto di ramificazioni ed ha una sola infiorescenza.

Il teosinte è molto sensibile alla durata del giorno e fiorisce soltanto quando le giornate sono brevi. L’ottenimento di piante capaci di fiorire indipendentemente dalla durata del giorno ha rappresentato un avanzamento importante per la domesticazione del mais, che ne ha permesso la diffusione alle diverse latitudini.

Gli studi di genetica suggeriscono che cambiamenti a carico di un piccolo numero di geni siano responsabili della trasformazione del teosinte in un primitivo mais domestico. Si pensa che nella storia della domesticazione del mais le trasformazioni più importanti siano comparse precocemente, generando un antenato comune delle diverse varietà moderne, che in seguito si è differenziato soltanto per dettagli riguardanti soprattutto numero e dimensioni delle cariossidi e adattamenti a climi e suoli diversi.

Tra i principali geni implicati ricordiamo tb1 (teosinte branched1), così detto perché i mais mutanti presentano un gran numero di ramificazioni che culminano con infiorescenze maschili, come nel teosinte.

Un secondo gene importante è ba1 (barren stalk1), è implicato nel regolare le ramificazioni, e che presumibilmente ha permesso al cespuglioso teosinte di essere trasformato nel moderno mais a stelo lungo probabilmene interagendo con tb1. Nel teosinte sono presenti diverse varianti di questo gene mentre in tutte le varietà di mais moderno ne è presente una sola forma: secondo gli studiosi questo suggerisce che i coltivatori mesoamericani abbiano probabilmente usato questa caratteristica, in combinazione con poche altre, per trasformare il teosinte in mais, uno degli eventi chiave nello sviluppo dell’agricoltura moderna

Inoltre è da citare il gene tga1 (teosinte glume architecture1) che nella forma presente nel mais produce cariossidi morbide, mentre la forma presente nel teosinte dà origine a cariossidi indurite. tga1 è stato recentemente clonato e la forma presente nel mais risulta essere il risultato di una mutazione di quella del teosinte. La liberazione delle cariossidi dal duro involucro protettivo presente nel teosinte, rendendole fruibili per il consumo umano è stato probabilmente il passaggio più critico nella domesticazione del mais,

I cambiamenti a carico dei primi due geni quindi hanno prodotto una pianta non ramificata e con numerose pannocchie, mentre quelli del secondo hanno prodotto i chicchi relativamente morbidi e quindi commestibili del mais.

Un ruolo importante è probabilmente svolto dal gene ramosa1 che regola la disposizione delle file di chicchi nella pannocchia e la sua ramificazione: i primi agricoltori avrebbero selezionato piante con versioni del gene ramosa1 che sopprimevano la ramificazione della pannocchia, ottenendo così file di chicchi diritte e pannocchie compatte come quelle delle piante moderne.

Zea mays, Poaceae, Granoturco

Scortecciando la pannocchia si notano i così detti “denti da latte”, i chicchi non maturi accanto ai loro stili © Gianfranco Colombo

Un’ultima ma non meno importante differenza tra il teosinte e il mais moderno è data dalla friabilità del rachide, o tutolo. Nei cereali selvatici il rachide è friabile e quando la spiga, giunge a maturità, si disgrega a partire dalla sommità. Questo permette una buona dispersione dei semi e quindi la riproduzione della pianta. Forme mutanti con rachide non friabile non disperdono i semi con grande vantaggio per il coltivatore. La pianta diviene però dipendente dall’uomo per la riproduzione. Questo carattere è regolato sia dal gene tga1 già descritto, che regola la durezza della cariosside e quindi la sua adesione al tutolo, che dai geni btr1 e btr2 (brittle rachis) che regolano la fragilità del tutolo

Oltre a quelli citati, altri geni possono essere stati interessati dalla selezione durante il processo di domesticazione ma, malgrado le grandi differenze morfologiche e funzionali tra le il mais e il teosinte le due specie condividono gran parte delle sequenze di DNA. Il squenziamento del DNA infatti dimostra che solo il 3% del genoma mostra segni di essere stato modificato durante l’addomesticamento

A riprova di questa osservazione sta il fatto che mais e teosinte sono interfertili.

La possibilità di un flusso di polline tra il mais domestico e altri teosinte selvatici ha ulteriormente contribuito alla sua diversificazione e continua tutt’ora, nelle regioni di origine, ad aumentare la sua diversità genetica.

In realtà le forme tipiche del mais dei geni citati sono presenti anche nel teosinte, seppure con modesta frequenza, di conseguenza si può capire come gli antichi agricoltori mesoamericani mediante selezione ed incroci abbiano potuto ottenere piante che presentassero con alta frequenza le caratteristiche desiderate.

Il mais in Europa

Gli europei incontrarono per la prima volta il mais a Cuba, durante primo viaggio di Colombo, già un mese dopo la scoperta dell’America.
 Non è certo se Colombo riportò il mais in Europa nel 1493, di ritorno dal suo primo viaggio o nel 1496 con il secondo viaggio. Dall’America, dove era estesamente coltivato e in molte regioni costituiva l’alimento principale della popolazione, venne Introdotto in Spagna fin dai primi del ‘500 e quindi si diffuse rapidamente in Francia ed in Italia, dapprima nei giardini come curiosità e poi negli orti per l’alimentazione dei contadini o come foraggio. La diffusione fu anche favorita dal fatto che il nuovo prodotto, sconosciuto alle burocrazie, non veniva tassato.

Mentre in Spagna la coltivazione non ebbe sviluppo sino a tempi recenti, sembra che la prima grande diffusione della produzione su larga scala si sia verificata nei Balcani dove, grazie anche alle per le condizioni climatiche favorevoli, si ottenevano rese doppie rispetto agli altri cereali. La diffusione a livello mondiale fu rapida e, nella seconda metà del ‘500 il mais era coltivato nelle Filippine e nelle Indie Orientali ed aveva raggiunto la Cina.

In Italia l’uso su larga scala iniziò nelle regioni del nord-est, più a contatto con i Balcani, e in seguito in tutta la pianura padana. Il nome popolare di granturco potrebbe derivare proprio dalla provenienza balcanica, ma più probabilmente si può spiegare col fatto che come pianta esotica veniva attribuita non all’America, luogo ancora non entrato nell’immaginario del popolo, ma al paese esotico per eccellenza, cioè la Turchia (si pensi anche al tacchino, di origine americana, che venne battezzato in inglese “turkey” cioè “turchia” e anche il nome italiano “tacchino” è una deformazione di turkey).

Zea mays, Poaceae, Granoturco

Pannocchie appese ad asciugare, secondo l’antica tradizione contadina © Gianfranco Colombo

Secondo altri autori invece la diffusione su larga scala in Italia settentrionale venne incoraggiata dagli occupanti Spagnoli.

Uno stimolo alla coltivazione del granturco venne anche dai proprietari delle terre che spingevano i contadini a produrlo per l’autoconsumo, riservando al padrone il più pregiato grano. Come vedremo questa pratica, che ricorda quanto avvenne in Irlanda per le patate, avrà conseguenze socio-sanitarie assai negative.

Il mais veniva coltivato con la tecnica dei “tre campi”: uno a mais e due a grano. In questo modo i contadini ottenevano sia i prodotti necessari a pagare le tasse, cioè il grano, sia ciò che era necessario per alimentarsi, cioè il mais trasformato in polenta.

La farina di granturco prese quindi il posto delle altre farine, di farro, orzo o segale, usate nella preparazione di uno degli alimenti più diffusi fin dalla antichità più remota, quel “poltos” (πολτοσ) dei Greci, il “puls” dei Romani (“puls”, genitivo “pultis”, da cui deriva polenta e anche poltiglia).

Di questo alimento nel 1568 l’umanista e medico Pietro Andrea Mattioli scrive che “i villani che abitano nei confini che determinano l’Italia dalla Germania, fanno della farina la polenta, la quale dopo che è cotta in una massa, la tagliano con un filo in larghe fette e sottili e acconciarla in un piattello con cascio o con butirro et assai ingordamente se la mangiano”.

Nel 1580 il mais è già seminato in pieno campo soprattutto nelle aree della bassa Veronese, Polesine e Ferrarese, dove va gradatamente a sostituire le colture di farro e frumento; alla fine del secolo si estende a diverse zone della Repubblica di Venezia, al Piemonte, alla Romagna e alle Marche. Attualmente le regioni italiane a maggior produzione di mais sono il Veneto, il Friuli, la Lombardia e il Piemonte.

Verso la metà del XVII secolo nell’Italia settentrionale il prezzo del frumento è circa il doppio di quello del granturco e ben presto, con la diffusione della già citata pratica dei “tre campi” (due a frumento per pagare l’affitto e uno a mais per l’alimentazione della famiglia contadina), la farina di granturco, diventa l’alimento fondamentale (e spesso l’unico) delle popolazioni rurali dell’Italia centro-Settentrionale.

I proprietari naturalmente favoriscono questa pratica poiché l’abbondanza di mais, aumentando le disponibilità alimentari, consente all’azienda una maggiore commercializzazione di frumento e riso. Questa dieta a base di polenta, priva di alcuni nutrienti essenziali, causa il diffondersi del “male della polenta”, la “pelle agra” o pellagra.

A favore della diffusione della coltivazione dal mais sta anche la sua produttività elevatissima (la resa in Italia oggi può superare le 20 t/ha (tonnellate/ettaro), in genere 9-12 t/ha, da confrontare con 25-90 q/ha (quintale/ettaro) per il grano tenero e ancor meno per il grano duro. La pianta del mais, oltre alla sua straordinaria produttività in termini di granella, utilizzata in varie forme nella alimentazione umana ed animale, produce circa altrettante tonnellate di steli, foglie e cartocci destinati a interramento come concime oppure come foraggio, lettiera per animali o combustibile.

Zea mays, Poaceae, Granoturco

La pannocchia ha un asse centrale approssimativamente cilindrico, lungo in genere 10-30 cm, detto tutolo, che reca 8- 24 file di cariossidi © Gianfranco Colombo

Anche nella agricoltura tradizionale il granturco è utilizzato in ogni sua parte, non solo per le applicazioni già citate ma anche manto di copertura per le tettoie (stocchi), come imbottitura dei materassi (con le bratteee, comunemente dette cartocci: forse qualcuno non tanto giovane ricorda i rumorosissimi ma comodi materassi imbottiti di cartocci di mais; nella stanza da letto c’era anche un legno biforcuto che si inseriva nell’imbottitura per sprimacciarla). I tutoli oltre che come come combustibile vengono utilizzati per fabbricare le pipe.

La granella viene utilizzata per la alimentazione umana o del bestiame, fresca o secca, intera, rotta o sfarinata, per l’estrazione di olio alimentare o per la produzione di amido, eventualmente idrolizzato per produrre sciroppo di glucosio. La granella è anche usata per la produzione di bevande analcoliche (in sud america la chicha morada da mais nero), o fermentata per produzione di alcol o di bevande alcoliche (in nord america il bourbon, in sud america la chicha de jora).

Sono ancora da citare le utilizzazioni industriali come ad esempio la produzione di materie plastiche e di tessuti a partire dall’amido di mais e soprattutto la produzione di etanolo, come combustibile per motori a benzina, e di biodiesel. Queste ultime utilizzazioni assorbono una quota importante della produzione mondiale e sono anzi responsabili del suo recente forte aumento. Questo problema suscita preoccupazioni e polemiche vista la sua influenza sul costo del mais per uso alimentare e per la sottrazione di terreni che vengono dedicati ai biocarburanti anziché a cibo, con conseguenze ovvie sulla alimentazione delle popolazioni più disagiate.

Zea mays, Poaceae, Granoturco

Particolare del tutolo con cariossidi, i chicchi commestibili noti come semi o granella © Gianfranco Colombo

Varietà di Mais

Sono conosciute numerosissime varietà di mais, diversamente diffuse nel mondo (oltre 50 varietà vengono coltivate soltanto in Peru), spesso da alcuni studiosi riunite in sottospecie.

Le sottospecie, secondo una classificazione generalmente accettata, sono:

Zea mays tunicata (mais vestito o “pod corn”)

Zea mays everta (mais da scoppio o “pop corn”)

Zea mays indurata (mais vitreo o “flint corn”)

Zea mays indentata (mais dentato o “dent corn”)

Zea mays amylacea (mais farinoso o “soft corn”)

Zea mays saccharata (mais dolce o “sweet corn”)

Zea mays ceratina (mais waxy)

È interessante discutere della varietà o sottospecie Zea mays tunicata detta mais vestito o mais tunicato o pod corn (alla lettera mais con baccello): i chicchi non sono “nudi” ma si presentano coperti da lunghe guaine membranacee, detti glumi, che conferiscono alla pannocchia un aspetto molto vistoso che ha incuriosito i naturalisti per secoli.

Anche i fiori maschili sono circondati da lunghe guaine. Il resto della pianta ha un aspetto normale.

Diverse popolazioni di nativi americani attribuivano al mais tunicato dei significati rituali e di conseguenza questa varietà si è diffusa ampiamente nel continente americano.

In passato alcuni studiosi hanno pensato che il mais tunicato potesse essere un progenitore selvatico delle moderne varietà coltivate. In realta negli anni recenti studi di genetica hanno smentito questa ipotesi, dimostrando invece che questa varietà di mais deriva da una mutazione per cui un gene responsabile della produzione delle foglie risulta attivo anche nelle infiorescenze. Le guaine visibili sia nei fiori maschili che in quelli femminili non sono altro quindi che foglie ectopiche, cioè spuntate in un sito anomalo.

Il mais come alimento per l’uomo

Il mais ha un contenuto medio di 9.4 g/100 g in proteine, 4.7 g/100 g grassi, 74.3 g/100 g in carboidrati, con un apporto calorico di 353 kcal/100 g. Il suo valore alimentare è però inadeguato a causa della carenza di alcuni amminoacidi essenziali e di alcune vitamine. Una alimentazione basata esclusivamente sul mais o in cui il mais sia predominante provoca quindi gravi stati di denutrizione e patologie come la pellagra

Amminoacidi essenziali

Il nostro organismo, per poter sintetizzare le proprie proteine, necessita di 20 diversi amminocidi, alcuni dei quali possono essere prodotti dalle nostre stesse cellule mentre altri devono necessariamente essere introdotti con la alimentazione; questi ultimi vengono definiti amminoacidi essenziali.

Esistono oggi numerose varietà ornamentali dette “arcobaleno” con semi sgargianti d’incredibili colori

Esistono oggi numerose varietà ornamentali dette “arcobaleno” con semi sgargianti d’incredibili colori © Bisse Bowman

La loro carenza determina gravi stati di malnutrizione anche letali. Mentre le proteine animali, come quelle della carne o del latte ci forniscono tutti i tipi di amminoacidi necessari, molte proteine vegetali mancano di alcuni di essi. Questo è il caso del mais le cui proteine sono gravemente carenti di due amminoacidi essenziali, il triptofano e la lisina.

La Pellagra

La pellagra è una grave patologia dovuta alla carenza di vitamina B3, detta anche vitamina PP (Pellagra Preventing).

Con il termine di vitamina B3 si intendono due molecole simili, la Niacina o Acido Nicotinico e la Nicotinamide: queste sostanze sono necessarie per la produzione di cofattori (NAD+ e NADP+) indispensabili che intervengono soprattutto nelle reazioni di ossido-riduzione del nostro metabolismo.

I sintomi della pellagra sono grave disepitelizzazione, cioè desquamazione della pelle delle mani e del collo (da questo il nome pellagra, pelle ruvida), diarrea, perdita di appetito e di peso, stress, lingua arrossata e gonfia, depressione e ansia (è detta la malattia dei 3D: Dermatite, Demenza, Diarrea) Se non curata la pellagra porta alla morte nel giro di pochi anni.

Si è lavorato anche sulle sfumature, con riflessi madreperlacei degni di una gioielleria

Si è lavorato anche sulle sfumature, con riflessi madreperlacei degni di una gioielleria © Jan De Bondt

Nel mais la niacina è presente ma in forma poco biodisponibile, in quanto legata a carboidrati sotto forma di niacitina o a proteine sotto forma di niacinogeni. In realtà la niacina può anche essere prodotta dal nostro organismo a partire dall’amminoacido Triptofano, che è però molto carente nel mais.

Una alimentazione basata sul mais, non integrata da altri alimenti ricchi di niacina o di triptofano, porta alla comparsa della pellagra.

Si pensi che tra i contadini di alcune regioni del nord Italia tra la fine del XIX e l’inzio del XX secolo l’alimentazione era costituita da tre kg di polenta al giorno, praticamente senza integrazione di altri cibi.

Per descrivere questa situazione si racconta che nelle famiglie povere i commensali, per insaporire la loro fetta di polenta, la strofinassero a turno su un’aringa affumicata che pendeva, attaccata ad uno spago, sul centro del tavolo. A questa carenza di alimenti si aggiungevano gli effetti deleteri dell’alcolismo assai diffuso, che provoca una alterazione dell’assorbimento intestinale delle vitamine.

La pellagra ha avuto una forte diffusione in Nord America e in Europa e soprattutto in Italia settentrionale tra il XVIII e il XX secolo. Nel 1878 in Italia si contavano quasi 100.000 casi.

Zea mays, Poaceae, Granoturco

In Sudamerica è frequente anche il mais nero, usato fra l’altro per la produzione di una tipica bevanda analcolica nota come “chicha morada” © Giorgio Venturini

Dopo aver compreso che la pellagra era dovuta alla carenza di vitamina B3 conseguente ad una alimentazione basata sul solo mais, ci si chiese come mai questa malattia era praticamente sconosciuta in Sud America, dove il mais rappresentava la base dell’alimentazione.

La risposta sta essenzialmente nei trattamenti cui i nativi sottoponevano il mais prima di consumarlo: secondo varie procedure la granella veniva trattata a caldo con acqua e calce o acqua e cenere, trattamento che rende disponibile la niacina distaccandola dalle molecole che la rendono non biodisponibile.

Questo procedimento, detto nixtamalizzazione (“nixtamal” nella lingua nahuatl, parlata dagli Aztechi, è una pasta di mais trattato con acqua e calce (“nextli (cenere o polvere di calce), e “tamalli (pasta di mais).

Col nome di “tamales”, in molti paesi latino-americani, si indicano degli involtini di farina di mais, variamente condita, avvolta in una foglia di banano o di mais e cotti a vapore o sulla brace. Ancora oggi la procedura della nixtamalizzazione viene applicata sia per la preparazione di pasta di mais, ad esempio per la preparazione delle tortillas, che per le cariossidi intere che vengono poi consumate in vario modo con il nome di “mote”. In molte ricette dopo la nixtamalizzazione il mais viene fatto fermentare, il che aumenta ulteriormente la biodisponibilità della vitamina.

Dalla farina del mais si ricava la polenta, piatto oggi insolito ma un tempo fondamentale per le popolazioni contadine. Carente di vitamina B3, essenziale per l’uomo, causò gravi patologie, note come pellagra, con desquamazione della pelle delle mani e del collo, diarrea, perdita d’appetito e peso, lingua arrossata e gonfia, demenza e morte

Dalla farina del mais si ricava la polenta, piatto oggi insolito ma un tempo fondamentale per le popolazioni contadine. Carente di vitamina B3, essenziale per l’uomo, causò gravi patologie, note come pellagra, con desquamazione della pelle delle mani e del collo, diarrea, perdita d’appetito e peso, lingua arrossata e gonfia, demenza e morte © Marco Bottinelli

I conquistatori spagnoli, nella loro cieca arroganza, presero il mais ma disprezzarono le pratiche tradizionali dei nativi.

Oltre alla pratica della nixtamalizzazione dobbiamo però ricordare che i nativi sud americani, pur avendo una alimentazione basata sul mais, la integravano con altri cibi, tra cui soprattutto fagioli, ricchi di niacina e di triptofano. A riprova di questa varietà di alimentazione dobbiamo considerare le pratiche colturali tradizionali, che prevedevano di piantare insieme mais, fagioli e zucche (le tre sorelle): il mais con i suoi robusti steli forniva supporto alle piante rampicanti dei fagioli, che a loro volta con i loro viticci lo irrobustivano, mentre la zucche, con le loro larghe foglie proteggevano il terreno dalla eccessiva evaporazione.

Oltre ai fagioli nell’alimentazione dei nativi americani, anche se molto povera di carne e priva di latticini, entravano due pseudocereali ricchissimi di amminoacidi essenziali, la quinoa (Chenopodium quinoa, parente degli spinaci) e la kiwicha (Amarantus caudatus).

Miglioramento del mais

Fin dagli anni ‘20 del XX secolo sono note varietà di mais contenenti proteine di alto valore alimentare e nel 1963 è stato selezionato un mutante, detto “opaque-2” ricco di lisina e triptofano, i due amminoacidi carenti nel mais.

Zea mays, Poaceae, Granoturco

Per raffinate polente, non può mancare in Italia anche il mais bianco © Gianfranco Colombo

Purtroppo però questa varietà di mais aveva una produttività scarsa, era suscettibile a diverse malattie, le sue cariossidi erano molli e gessose e soprattutto il sapore e la consistenza lo rendevano sgradito ai consumatori. La sua produzione venne quindi abbandonata.

Intorno al 1970 dei ricercatori che lavoravano in Messico al CIMMYT (Centro internazionale di miglioramento del mais e del grano) ripresero lo studio di questa varietà e alla metà degli anni 1980 riuscirono a produrre una varietà detta QPM (Quality Protein Mais) con caratteristiche ottime ed alto contenuto in lisina e triptofano.

A partire dagli anni 1990 il QPM vene coltivato con successo in molti paesi, sia in Africa che in Asia e in America, con notevole beneficio per lo stato nutrizionale delle popolazioni. Si sottolinea che non si tratta di un prodotto OGM ma del risultato della selezione e incrocio di mutanti spontanei.

Ibridi di mais

Dal momento che la autofecondazione nel mais si verifica soltanto eccezionalmente, le coltivazioni di mais sono formate da indidui geneticamente eterogenei. Di conseguenza i tentativi di selezionare ceppi migliori scegliendo per la semina soltanto le cariossidi provenienti dalle pannocchie migliori non hanno dato risultati apprezzabili, non essendo controllabile il genitore maschile.

Un successo notevole si è ottenuto con i cosidetti ibridi di prima generazione.

Sottoponendo ripetutamente ad autofecondazione forzata delle piante si ottengono delle linee pure, da cui per selezione vengono eliminati i caratteri recessivi non desiderati.

Queste linee pure, praticamente omozigoti, perdono vigore e produttività (depressione da inincrocio) ma l’incrocio di due linee pure diverse dà spesso origine a ibridi tutti uguali, vigorosissimi e ad alta produttività, dotati delle caratteristiche richieste (eterosi o lussureggiamento degli ibridi). Già Darwin, nel 1876, aveva descritto nel mais la depressione da inincrocio, cioè la diminuzione di taglia e di produttività in seguito ad autoimpollinazione e il vigore degli ibridi cioè l’aumento di taglia e di vigore dopo impollinazione incrociata. Oggi nell’agricoltura a livello industriale si utilizzano prevalentemente i mais ibridi, mentre le razze a impollinazione libera sono per lo più limitate alla coltivazione a piccola scala.

Dal momento che questi mais ibridi sono il risultato di prima generazione dell’incrocio di due linee pure, il  coltivatore deve riacquistare il seme ogni anno, con la conseguenza di costi elevati. In tempi recenti si è riusciti ad abbassare notevolmente il costo, permettendo una buona diffusione di questo tipo di ibridi

Mais transgenici

Grazie alla sua enorme importanza economica il questa specie è oggetto di intenso lavoro con tecniche di ingegneria genetica che stanno portando a realizzare numerosi tipi di mais transgenico. I principali caratteri ingegnerizzati riguardano la resistenza a patogeni, come ad esempio la Piralide, uno  dei più importanti parassiti, e la resistenza ad erbicidi, come il Glifosato e la resistenza alla siccità. Piante di mais modificate in questi sensi sono attualmente coltivate in molti paesi del mondo.

zea diploperennis

Secondo alcuni studiosi, la Zea diploperennis, nativa del Messico, farebbe parte delle specie dette Teosinte che hanno dato origine al mais coltivato @ Fred

Il Mais e la creazione dell’uomo nella mitologia maya del Popol Vuh

Gli dei crearono più volte l’umanità, dapprima con il fango, ma gli uomini così prodotti si scioglievano con la pioggia ed erano privi di intelligenza; poi li fecero con il legno, ma questi uomini non avevano anima e non riconoscevano i loro creatori e quindi gli dei li distrussero con il diluvio universale. Al diluvio sopravvissero soltanto pochi esemplari, che sono le scimmie. Infine gli dei usarono il mais macinato e impastato ottenendo risultati soddisfacenti. Questi uomini fatti di mais furono i primi antenati dell’umanità ed erano perfetti, poiché erano dotati della stessa saggezza e intelligenza degli dei e potevano vedere e comprendere il mondo intero.

Gli dei pensarono che questa situazione era inaccettabile, perché così non ci sarebbe stata alcuna differenza tra i creatori e le loro creature. Perciò, gli dei, alitando sugli uomini ne fecero diminuire l’intelligenza e facendo in modo che il loro sguardo si annebbiasse e il risultato sono gli uomini attuali. E’ interessante l’analogia con la cacciata dal biblico paradiso terrestre di Adamo ed Eva che mangiando il frutto dell’albero proibito avevano acquisito la conoscenza del bene e del male: Il Signore Dio disse allora: «Ecco l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male”. Genesi, 3, 22

L’origine mitica del mais per gli Aztechi

Il Dio Centeotl (nella lingua dei Maya, Centli è la pannocchia  e Teotl è dio) donò all’uomo il mais, e anche il cotone, la batata e il chenopodio oltre a una droga, forse il pulque, riportandoli dal mondo sotterraneo.

Ostrinia nubilalis, parassita mais

Femmina, in alto, e maschio di Ostrinia nubilalis, un pericoloso lepidottero parassita del mais © Claude Galand

Il Mais nella scienza

Il mais occupa un posto importante nella storia della genetica per gli studi che Barbara McClintock condusse sul colore variegato delle cariossidi.

Questi studi portarono a dimostrare per la prima volta la possibilità che i geni o parti di essi si potessero spostare all’interno dei cromosomi (geni trasponibili o trasposoni).

L’importanza di questa scoperta, dalle implicazioni importantissime sia per la biologia che per la medicina, è stata riconosciuta con l’attribuzione alla genetista Americana del premio Nobel nel 1983

Il mais nell’arte

La frequenza con cui, nel periodo rinascimentale, la spiga di mais entra nelle raffigurazioni artistiche è indicativa dell’ormai larga diffusione del cereale e del fascino che questa grande pannocchia dorata con la sua disposizione regolare delle cariossidi esercitava sugli artisti.

A titolo di esempio possiamo ricordare le opere “Vertumno” e “l’Estate” di Arcimboldo ma soprattutto gli affreschi dell’allievo di Raffaello, Giovanni da Udine, nella loggia di Psiche della Villa Farnesina di Roma, che contengono probabilmente la prima raffigurazione del Mais in Europa.

È da notare che questi affreschi sono stati eseguiti tra il 1515 e il 1517, quindi a pochissimi anni dall’arrivo del mais in Europa.

La coltivazione tradizionale del mais.

Al giorno d’oggi nei paesi sviluppati la coltivazione del mais su larga scala è completamente meccanizzata e operazioni come la raccolta, la scartocciatura e la sgranatura vengono eseguite sul campo da un unico macchinario. In molti paesi in via di sviluppo, e anche in Europa per quanto riguarda la piccola produzione per uso familiare, si seguono però tuttora metodi tradizionali in gran parte manuali, simili a quelli di uso generalizzato ancora nella prima metà del XX secolo.

In autunno il terreno veniva preparato e concimato, in attesa della semina che avveniva a primavera: con la zappa venivano scavate a distanza regolare delle buche in cui venivano lasciati cadere i semi che poi venivano ricoperti di terra. Dopo la nascita delle piantine queste venivano diradate lasciando una sola pianta per ogni buca.

All’inizio dell’estate, quando le piante di mais sono ben cresciute, si provvedeva al rincalzo della terra e alla concimazione, eseguita con stallatico. Seguiva il processo di cimatura, che consisteva nella potatura dei nodi più alti della pianta che portano l’infiorescenza maschile, allo scopo di rinvigorire lo sviluppo delle pannocchie. Naturalmente il materiale asportato con la cimatura veniva utilizzato per il bestiame. Quando le pannocchie avevano raggiunto la maturazione, in genere a settembre nell’Italia centro-settentrionale, era il momento della raccolta, eseguita manualmente staccando le pannocchie dal fusto e mettendole in una gerla di vimini portata a spalla.

Al termine della raccolta le pannocchie venivano poste ad asciugare sotto un portico, o sull’aia a seconda del clima, sino al momento della scartocciatura e della sgranatura, operazioni, che in genere coinvolgevano tutto il nucleo familiare. Nel frattempo le piante rimaste sul campo venivano falciate e utilizzate come alimento o come lettiere per il bestiame.

La scartocciatura consisteva nella eliminazione del cartoccio (brattee) eseguita a mano, eventualmente con l’aiuto di un grosso chiodo che i contadini tenevano appeso al polso con uno spago.

Ostrinia nubilalis, parassita mais

I bruchi di questa farfalla divorano dall’interno la pannocchia e lasciano uscendo caratteristici fori © G. Colombo

Le foglie più esterne del cartoccio, più coriacee, venivano usate come lettiera per il bestiame, mentre quelle più interne e morbide servivano per l’imbottitura dei materassi. Non sempre si eliminavano tutte le brattee, perché alcune, ripiegate all’indietro, formavano una sorta di manico usato per legare insieme le pannocchie e formare dei mazzi che si appendevano ad asciugare.

Per la sgranatura ci si poteva aiutare con lo stesso chiodo usato per scartocciare, le cui punte veniva fatta scorrere tra le file dei chicchi per staccarli dal tutolo. In alcuni paesi per la sgranatura ci si aiutava con una mascella di un animale come la pecora i cui denti servivano come una sorta di raspa. Per la sgranatura si poteva anche usare uno sgranatore a manovella, dotato di un disco metallico che ruotava mentre le pannocchie venivano spinte a mano o da una molla contro la sua superficie dentata. Operazioni come la scartocciatura e la sgranatura, che richiedevano molto tempo e coinvolgevano tutto il nucleo familiare, in epoche passate rappresentavano importanti momenti di socializzazione durante i quali le nonne raccontavano storie e circolavano notizie e pettegolezzi in un ambiente non funestato dalla televisione.

Dopo la sgranatura i chicchi venivano stesi a seccare, periodicamente rimescolati con un rastrello. Al termine dell’essiccamento, trasferiti in sacchi, i chicchi venivano trasportati al mulino per la produzione della farina di polenta o conservati.

Malattie del mais

Il mais può essere bersaglio di diversi patogeni, di natura animale, micotica o virale che sono in grado di alterare la sua produzione sia come quantità che come qualità. A livello mondiale, si stima che le patologie del mais determinino la perdita di circa il 9% della produzione, con forti differenze tra diverse aree geografiche.

I più importanti agenti patogeni del mais sono funghi microscopici e oomiceti (gli oomiceti, classificati in passato come funghi vengono oggi ascritti al regno dei Chromista) che, oltre che aggredire la pianta, possono agire anche sulle pannocchie o sulla granella anche dopo la raccolta durante la conservazione. Un problema importante che riguarda alcune delle patologie fungine è dato dalla produzione da parte del fungo di micotossine, potenzialmente dannose per l’uomo o per gli animali che si nutrono del mais infetto. Il marciume del seme e delle plantule è provocato da oomiceti del genere Pythium o da ascomiceti del genere Helmintosporium. I patogeni possono essere presenti nel seme o nel terreno, il loro sviluppo è favorito da terreni umidi e poco drenati. L’infezione può provocare la morte della plantula.

Funghi del genere Helmintosporium possono anche infettare piante adulte e l’infezione provoca disseccamento delle foglie, indebolimento della pianta e scarsa produttività. Una infezione fungina che colpisce il mais ed altre graminacee è la peronospora, causata dal micete Sclerospora macrospora.

La peronospora, che può manifestarsi in tutti gli organi della pianta, è facilitata dal ristagno idrico e quindi dalla sommersione del terreno seminato e delle plantule.

Laodelphax striatellus, virus mais

Laodelphax striatellus è un piccolo emittero, non meno dannoso, che succhiando le foglie del mais trasmette il virus del nanismo ruvido © Christophe Quintin

Morfologicamente le alterazioni più vistose sono a carico dell’infiorescenza maschile, da cui il nome comune di cima pazza per questa malattia, che è di modesto interesse in Europa ma più significativa negli Stati Uniti.

Una patologia importante è rappresentata dal marciume dello stocco, che provoca rammollimento e disgregazione del fusto, fino anche alla morte della pianta, ed è provocata dal micete Fusarium graminearum (anche detto Gibberella zeae) o altre specie dello stesso genere. Questo fungo colpisce anche altre graminacee come il frumento, l’orzo o il riso ed è diffuso in tutto il mondo.

Il carbone del mais è una delle più note e comuni affezioni fungine che possono colpire il mais ed è provocato dal basidiomiceta Ustilago maydis. Il carbone provoca la formazione di escrescenze, dette galle o tumori, sulla pannocchia o anche su altre parti della pianta. Le galle sono dapprima biancastre e carnose e sono ricoperte da una pellicola sottile, ma in seguito tali formazioni si scuriscono producendo una massa pulverulenta di spore nerastre che vengono liberate in seguito alla rottura della pellicola che le ricopre. Le spore rilasciate cadono sul terreno, dove rimangono vitali per diversi anni e a primavera germinano producendo nuove spore che infettano altre piante. È importante sottolineare che le galle, che hanno dimensioni variabili e possono raggiungere un diametro di 15-20 centimetri, sono commestibili e vengono fin dall’antichità utilizzate delle popolazioni dell’America centrale, dove sono note come tartufi del mais o huitlacoche. In tempi recenti l’uso alimentare dei tartufi del mais si è diffuso in altri paesi, soprattutto negli Stati Uniti, dove vengono commercializzate sia fresche che inscatolate.

Ustilago maydis, carbone mais

Il carbone del mais è una delle più note e comuni affezioni fungine che possono colpire il granoturco ed è provocato dal basidiomiceta Ustilago maydis © Gianfranco Colombo

Il notevole successo commerciale delle galle ha stimolato studi mirati a selezionare ceppi particolarmente aggressivi del fungo, capaci di produrre galle più numerose e più grandi ed anche per ottenere ibidi di mais particolarmente suscettibili all’Ustilago (situazione paradossale se si pensa che la maggior parte degli studi in questo senso mirano a trovare ibridi resistenti e a eliminare le infezioni).

Tra le patologie dovute a miceti capaci di produrre micotossine potenzialmente tossiche per l’uomo o per il bestiame ricordiamo la Fusaria verticilloides, che provoca marciumi in diverse parti della pianta e Aspergillus flavus che, pur essendo in genere una saprofita può anche attaccare piante vive.

Fusaria verticilloides produce delle pericolose tossine note come fumonisine. Anche se i danni alla produzione provocati da questo fungo non sono ingenti la attenzione verso questa affezione è alta visto si ritiene che le tossine prodotte possano provocare gravi danni nell’uomo oltre che nel bestiame. È da notare che le tossine si accumulano nelle cariossidi e che la loro produzione non si verifica soltanto sul campo ma anche dopo la raccolta.

Situazione analoga è quella che riguarda Aspergillus flavus che può provocare marciume e la comparsa di muffe verdi sulle cariossidi. Questo fungo produce delle aflatossine, la cui pericolosità per l’uomo e gli animali è ben nota. Anche per questo fungo la produzione di tossine continua dopo la raccolta, durante lo stoccaggio.

Ustilago maydis, carbone mais

L’Ustilago maydis provoca la formazione, sulla pannocchia e altre parti della pianta, di escrescenze commestibili, dette galle o tumori. Sono dapprima biancastre e carnose e ricoperte da una pellicola sottile che si spezza in seguito producendo una massa pulverulenta di spore nerastre. Cadono sul terreno e possono restare vitali per diversi anni © Gianfranco Colombo e Giuseppe Mazza

Altre malattie, che generalmente non si sviluppano in forma grave, sono le “ruggini” (Puccinia maydis, Puccinia purpurea, ecc.), che colpiscono di preferenza le foglie e le brattee.

Parassiti animali

Gli insetti maggiormente dannosi per mais sono lepidotteri come Ostrinia nubilalis (sinonimo Pyrausta nubilalis), quelli del genere Sesamia e soprattutto il coleottero crisomelide Diabrotica virgifera. Quest’ultimo parassita è originario del nord America, dove è considerato come l’agente patogeno più importante del mais. Nei primi anni ‘90 il coleottero è stato segnalato in Serbia, da dove si è diffuso in pochi anni in buona parte dell’Europa. I danni alle piante di mais sono causati soprattutto dalle larve sotterranee che danneggiano gravemente l’apparato radicale.

È interessante notare le che vecchie varietà del mais, coltivate sia in America che in Europa, erano in grado di difendersi da parassiti come la Diabrotica virgifera producendo e liberando nel terreno delle sostanze come il cariofillene che attirano dei piccoli nematodi del genere Heterorhabditis che si nutrono delle larve dei parassiti. Le varietà più moderne del mais, selezionate per ottenere una maggior produttività, hanno invece perduto questa capacità.

Zea mais affresco

Un interessante affresco, opera di Giovanni da Udine allievo di Raffaello, nella loggia di Psiche della Villa Farnesina di Roma. Contiene probabilmente la prima raffigurazione del Mais in Europa. È da notare che questi affreschi sono stati eseguiti tra il 1515 e il 1517, quindi a pochissimi anni dall’arrivo di questa specie in Europa © Giulia Caneva

Tramite l’ingegneria genetica sono state ottenute piante di mais che hanno riacquistato la capacità di produrre il cariofillene, ma i risultati sono stati inferiori alle attese dal momento che la Diabrotica virgifera a sua volta ha evoluto strategie difensive. Il mais infatti, come altre piante, produce delle sostanze antiparassitarie, le benzossazine, dotate di attività insetticide e antibatteriche.

La Diabrotica virgifera è in grado di assorbire queste sostanze e poi di rilasciarle dopo averle modificate in modo tale da renderle tossiche per i nematodi. In questo modo il parassita di difende sia dalle sostanze tossiche rilasciate dal mais sia dai nematodi del terreno.

Anche altri insetti come i maggiolini, gli elateridi, le grillotalpe, possono arrecare danni al mais.

Tra i virus infine ricordiamo il virus del nanismo ruvido (MRDV) trasmesso dalla cicalina Laodelphax (emittero Delphacidae), il virus del mosaico MDMV, trasmesso da afidi, e il virus barley yellow dwarf, anche questo trasmesso da afidi

Oltre che sui metodi tradizionali la difesa contro i patogeni del mais si basa, per quanto riguarda i miceti, sul trattamento delle sementi con fungicidi che permette di eliminare i patogeni presenti sul seme e può agire anche contro spore presenti nel terreno e soprattutto sulla scelta di ibridi resistenti, che sono già disponibili per diverse malattie.

Si deve soprattutto ricordare che l’insorgenza di malattie micotiche è facilitata da condizioni ambientali favorevoli al parassita e quindi la prevenzione basata su un’opportuna scelta e trattamento del terreno potrà essere di grande efficacia.

Per gli insetti si punta agli insetticidi a basso impatto ambientale a base di Bacillus thuringensis. Per le malattie virali infine la strategia consiste principalmente nella lotta agli insetti vettori.

 

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