Evoluzione piante : la nascita della vita e l’invenzione del fiore

 

Il primo essere vivente fu una pianta

 

jpg_evolu1.jpg

jpg_evolu2.jpg

jpg_evolu3.jpg

PEPPINO.gif
Texto © Giuseppe Mazza

 

Quando nasce la vita sulla terra ?

Pare circa 4 miliardi danni fa. L’aria, priva d’ossigeno, era un miscuglio, non certo salubre, d’ammoniaca, idrogeno, metano, acido solforico, ed acido cianidrico. Ma sotto l’effetto del calore, delle radiazioni e dei fulmini, alcune molecole del “brodo primordiale”, dell’acqua marina, cioè, carica di zuccheri, aminoacidi, acidi grassi, basi puriniche e pirimidiniche, misteriosamente si fondono.

Nascono i famosi 20 amminoacidi che costituiscono i “mattoni” della materia vivente, le proteine, i codici genetici, e una fine membrana che separa il primo microrganismo dall’ambiente.

Si tratta, suggeriscono i resti fossili, d’esseri prossimi ai batteri, che si nutrono d’ATP (Adenosin-trifosfato), una sostanza allora abbondante in mare. Rompono questa grossa molecola, un po’ come facciamo noi oggi nelle centrali nucleari con l’atomo d’uranio, ricavando energia ed un composto più piccolo : l’ ADP (Adenosin-difosfato). Tutto va bene, ma dopo qualche milione d’anni, l’ ATP, com’è logico, scarseggia.

È la prima grande crisi energetica, e la natura risponde con una reazione chimica contraria. L’ ADP, ormai in eccesso, si combina col glucosio in fermentazione per merito d’altri batteri, e riforma l’ ATP. Il ciclo così si chiude mirabilmente : da una parte microrganismi che scaricano la “batteria della vita”, e dall’altra microrganismi che la ricaricano.

Ma come accade ancor oggi col mosto, il processo di fermentazione ha degli scarti : delle bollicine d’anidride carbonica, che si accumulano nell’atmosfera, e dell’alcool, che si concentra nel “brodo primordiale”.

Dopo circa un miliardo d’anni la terra è di nuovo in crisi : il glucosio scarseggia, e gli esseri viventi, nuotano ubriachi e senza speranza in un mare di guai.

È la seconda grande crisi energetica. La partita sembra definitivamente persa, quando un geniale “batterio”, 3.100 milioni d’anni fa, secondo i fossili calcarei di Bulawayo in Rhodesia, inventa una straordinaria molecola verde : la clorofilla. Si lascia attraversare dai raggi del sole, ma anziché scaldarsi come un volgare coccio di vetro, sintetizza, in modo ancor oggi misterioso, il materiale e l’immateriale.

Nasce la prima pianta. Un essere in grado di combinare l’energia luminosa, con l’anidride carbonica, l’acqua, e i minerali, per fabbricare della materia vivente, e soprattutto degli zuccheri.

Ma anche questo processo ha uno scarto : una sostanza vista allora come pericolosa e inquinante : l’ossigeno.

Si raccoglie poco a poco nell’atmosfera, si trasforma negli strati alti in ozono, e proteggendo la terra dai raggi ultravioletti, tinge di blu il cielo, fin qui grigiastro. Uno spettacolo stupendo, ma una sventura per i poveri batteri anaerobi della fermentazione, che vissero, è facile immaginarlo, questa scoperta come una “catastrofe nucleare”.

Alcuni adattandosi alle nuove condizioni ambientali, inventarono la respirazione, il processo in cui, con un rendimento 18 volte più grande della fermentazione, si ricava energia dagli zuccheri bruciandoli con l’ossigeno, ma i più morirono, o si rifugiarono nel sottosuolo, come farebbero, nella nostra civiltà, i superstiti di una spaventosa guerra atomica. E li troviamo ancora lì, nel buio, dove manca l’aria, sotto la melma del mare, dei laghi e degli stagni.

Ma quanto vivevano questi esseri primitivi ?

Erano potenzialmente immortali. Si riproducevano in pochi minuti, per scissione, come fanno ancora oggi i batteri, e moltissimi unicellulari, come le alghe planctoniche, l’ameba o gli infusori.

Il processo è dei più banali : quando, a furia di mangiare, il microrganismo diventa troppo grande, duplica il patrimonio genetico e si divide in due. Ma la “madre” (o il “padre”, perché non sono ancora nati i sessi !) non scompare : ringiovanita dalla scissione, continua a crescere e a vivere, per dividersi in eterno.

Certo qualche cellula accidentalmente muore, divorata da altri organismi, o perché magari si prosciuga la pozza d’acqua, ma a meno di una catastrofe, l’individuo, quella combinazione cromosomica, ha una speranza di vita illimitata.

Va da sé che le cellule di un tale “superessere” sono tutte rigorosamente uguali. Anzi, visto che dall’esame degli aminoacidi degli organismi viventi (sempre gli stessi, presenti per di più sempre nella forma “L”), dalla struttura del sistema di sintesi proteica, e dall’universalità del codice genetico, si ricava che la vita sulla terra è nata una volta sola, il mondo, all’inizio, doveva essere popolato da un solo organismo, onnipresente, con cellule separate ma identiche.

Ve l’immaginate che noia ? Il “signor Rossi” che al mattino, uscendo di casa, trova se stesso per strada, per litigare con se stesso in ufficio, e poi andare a dormire con se stesso !

Per fortuna, alla lunga, sotto l’effetto delle radiazioni mutagene e degli errori di duplicazione dei geni, le cellule teoricamente uguali del nostro “superessere” cominciarono a differenziarsi.

La natura conservava in questa o in quella la “risposta” per superare le diverse difficoltà ambientali, e dato che, come accade ancora oggi fra i batteri, i geni, liberi nel protoplasma, passavano facilmente da un individuo all’altro, molto prima dei francescani, la parola d’ordine della vita fu “dividi tutto, e porta con te il meno possibile”.

Il mondo per millenni fu un’immensa “fiera dei geni” in cui, secondo le necessità, con un semplice “urto”, i microrganismi se li scambiavano con spirito fraterno.

Poi, circa 2 miliardi d’anni fa, uno di questi divenne ingordo e avaro. Disubbidì, decise di non cedere più i propri geni al primo venuto, e di chiuderli a chiave in una “cassaforte”, il nucleo, stipandoli e ordinandoli come dei libri in biblioteca (oggi un batterio ha in media 1 milione d’informazioni cromosomiche, un’ameba 400 milioni, e un uomo 5 miliardi !), per far fronte da solo ad ogni evenienza.

Gli scambi fraterni non erano più possibili, ma nel frattempo la natura aveva concluso che se una cellula si divideva per farne due, si poteva ben immaginare il processo opposto : due cellule, cioè, che si fondono per darne una.

In questo modo, lo scambio dei cromosomi, delle “ricette per la vita”, non solo era possibile, ma ne usciva enfatizzato.

Nasce così la sessualità, con l’indissolubile corollario della morte.

Due organismi, abbastanza simili per “sposarsi” ma con caratteristiche diverse, mettono in comune i loro geni, e creano un essere nuovo, praticamente unico (nella specie umana, per esempio, le possibili combinazioni cromosomiche sono 64.000 miliardi !), diverso da entrambi.

Il prezzo è altissimo, perché i genitori, non potendosi più duplicare per scissione, prima o poi muoiono, e si perde quindi per sempre la loro identità, la loro configurazione genetica; ma mentre i “batteri borghesi”, teoricamente immortali, furono tagliati fuori dall’evoluzione, i “trasgressori”, col loro continuo rimescolamento di geni, crearono, un po’ alla volta, differenziandosi, tutti gli altri esseri viventi.

Ne deriva che la stessa divisione fra animali e piante è solo un fatto di comodo.

La vita è un fenomeno unico, e le parentele fra i due regni sono ben più strette di quel che si pensa. Tant’è che alcune alghe unicellulari “indecise”, come le Euglena, possono comportarsi da piante e fare la fotosintesi se c’è luce, o perdere la clorofilla, e vivere come animali, di sostanze organiche, nell’oscurità delle fogne.

Ma torniamo alle alghe che hanno scoperto la fotosintesi ed i matrimoni. Alcune, come le Diatomee, dai delicati astucci silicei, si riproducono oggi tanto per scissione che per via sessuata. Sono fra le principali componenti del fitoplancton, delle sterminate “praterie marine” di vegetali in sospensione, che nutrono direttamente o indirettamente, come accade sulla terra ferma con le altre piante, il mondo animale circostante.

La quantità di “carne verde” prodotta dai due ambienti è sorprendentemente analoga. Sulla Manica, per esempio, dove il mare con riflessi verdastri indica notevoli quantità di fitoplancton, si è rilevata la creazione di 1.400 tonnellate di vegetali all’anno per Km2, contro le 1.800 tonnellate di fieno dei prati adiacenti.

I mari dalle acque limpide, come accade invece sulla Costa Azzurra, riflettono per la gioia dei romantici il blu del cielo, ma anche una povertà congenita di fitoplancton, e quindi purtroppo di pesce.

Ma un bel giorno le alghe planctoniche, stufe di sbattere lungo le coste, pensarono che non era poi male attaccarvisi.

Nella zona di risacca, dove l’aria e l’acqua si rimescolano senza sosta, abbonda infatti, oltre al sole, l’anidride carbonica, la “materia prima” fondamentale della fotosintesi.

Alcune alghe unicellulari svilupparono quindi parallelamente dei “piedi” filamentosi, ramificati, o fogliacei, detti “talli”, per ancorarsi saldamente agli scogli. Fu in breve la corsa all’accaparramento dei posti migliori.

L’area privilegiata è il livello di bassa marea, dove anche nei pleniluni, il rischio di restar senz’acqua è nullo. E qui naturalmente si sono insediate le alghe “nobili”, come le maestose Laminarie, dalle grandi lame brune che possono raggiungere (Macrocystis sp.) i 150 m di lunghezza : l’essere vivente più grande che si conosca.

Sopra questa “zona di lusso”, si sono installati organismi più rustici, con talli spesso ricchi di palloncini galleggianti, come i nostri Fucus o l’incredibile Hormosira banksii australiana; e più su ancora la Lattuga di mare (Ulva lactuca), con specie analoghe dai talli verdi sempre più sottili, fino a diventar filiformi, come l’erba, per meglio resistere alla disidratazione.

Sotto, nelle zone meno esposte al sole, si sono impiantate le Alghe brune e le Alghe rosse, con sofisticati coloranti uniti alla clorofilla, per meglio sfruttare, fino a 200 m di profondità, i deboli raggi solari.

Per riprodursi queste piante attuano in pratica tutte le strategie sessuali ed asessuate che si conoscono.

Possono, come i Sargassi, ricrear le “fronde” da un frammento di tallo; emettere, senza sposarsi, delle spore germoglianti, come se noi partorissimo figli con cellule che si staccano dalle dita dei piedi; o liberare microrganismi natanti, maschi o femmina, differenziati o morfologicamente ambivalenti, che si corteggiano, e dopo un vero e proprio balletto si fondono per creare un uovo.

Dalle alghe verdi più esposte alla disidratazione, con tecniche riproduttive spesso analoghe, sono nate le prime piante terrestri; ma anche senza scomodare le grandi “civiltà vegetali” che seguirono, le alghe hanno già colonizzato da sole, bene o male, tutte le terre emerse.

Nelle più piccole pozze d’acqua, sui muri, fra le pietre e sul tronco degli alberi, vivono, scambiate spesso per muschi, miliardi di microscopiche alghe verdi. Alcune, come le Trebouxia e le Nostoc, si sono associate stabilmente con dei funghi per dar vita ai licheni, organismi d’assalto, in grado d’affrontare i freddi polari e i deserti più infuocati; altre, trasportate dai venti, prosperano addirittura sulla neve come niente fosse.

La Chlamydomonas nivalis, per dirne una, stupisce ogni anno gli sciatori col fenomeno delle “nevi rosse”, colorate dal pigmento che elabora per difendersi dagli ultravioletti; e sull’Himalaia, ad oltre 5000 m d’altezza, è sempre un’alga unicellulare che detiene, per il Guinness dei primati, il record assoluto della vita vegetale in quota.

 

I vegetali conquistano le terre emerse.

 

jpg_evolu4.jpg

jpg_evolu5.jpg

jpg_evolu6.jpg

PEPPINO.gif
Texto © Giuseppe Mazza

 

Qual’è stata la prima pianta terrestre ?

Chi può dirlo ? Se è indubbio, come abbiamo esposto nel servizio sulle alghe, che la vita sulla terra è nata una volta sola, che tutti gli esseri viventi, cioè, hanno un antenato comune, più difficile è ricostruire la grande epopea dei vegetali alla conquista delle terre emerse.

Certo i protagonisti furono gli antenati dei muschi, delle felci, dei licopodi, delle selaginelle, e degli equiseti, piante tutte che mostrano una parentela più o meno stretta con la civiltà delle alghe, ma i legami e le origini di questi gruppi si perdono nella notte dei tempi.

Quando la natura crea del nuovo, quando per colonizzare un ambiente inventa dei “prototipi”, li fa, come noi, in pochi esemplari e per un tempo limitato. Poi, se l’idea s’afferma, inizia la “produzione in serie”, e solo quando quella “ricetta per la vita” miete successi ovunque, troviamo dei fossili.

Ma gli eroi del momento, gli innovatori, scompaiono in genere senza lasciare traccia. È come se fra qualche milione d’anni un paleontologo specialista in automobili cercasse nella roccia i resti della nostra civiltà : troverà forse, nell’ipotesi che si fossilizzi, il cofano del “maggiolino Volkswagen”, ma non certo gli scheletri delle prime vetture, simili a carrozze, prodotte artigianalmente in numero limitato. Difficile quindi, se non impossibile, dire quale alga verde pluricellulare tentò per prima la vita fuor d’acqua, forse su uno scoglio spruzzato dalle onde, forse ai margini di una tranquilla laguna.

La “palma dei conquistatori” venne in un primo tempo assegnata ai muschi, già presenti nei fossili del Carbonifero, ma probabilmente più antichi, per le loro dimensioni modeste, e un look molto simile alle alghe del bagnasciuga.

Anzi i botanici dell’ottocento mostravano trionfanti nell’Epatica (Marchantia polymorpha) un “muschio anomalo” a forma d’alga, l’anello di congiunzione fra quest’ultime e le prime piante terrestri; ma poi, dall’esame della strategia riproduttiva delle epatiche ci si è accorti che sono solo dei muschi regrediti, nostalgici del passato, che trovandosi a vivere lungo i torrenti, su dei sassi fradici, non hanno saputo resistere all’invito di tornare a strisciare come alghe.

L’evoluzione mischia le carte; e a complicar le ipotesi, non procede mai in linea retta, ma a zigzag, o come in certe danze popolari in cui si fanno tre passi avanti e due in dietro. Oggi molte certezze crollano e c’è persino chi sostiene che i muschi derivano da piante palustri, sconosciute, miniaturizzate da eventi climatici.

Meglio comunque restare oggettivi e attenersi ai fatti. Guardiamo da vicino un tappeto di muschio. Anche se ai tropici non mancano specie insolite pendenti, con fusticini lunghi anche un metro, e le Briofite, che raggruppano i muschi, le epatiche e gli sfagni, vantano ben 23.000 specie, 23.000 “modelli” diversi, si tratta quasi sempre di fragili piantine di pochi millimetri. Vivono gomito a gomito, pigiate l’un l’altra, come i polipi di corallo dei reef, perché l’ unione fa la forza, e con la loro struttura a cuscinetto trattengono meglio l’umidità e quel tanto d’humus che basta per colonizzare anche le rocce più inospitali.

Osserviamo un singolo componente della colonia. In cosa si differenzia da un’alga ?

Anzitutto cresce fuor d’acqua. Ha una radicetta, che pompa l’umidità dal suolo, e i liquidi passano lentamente, per osmosi, da una cellula all’altra. Farli circolare senza vasi non è semplice, e ciò spiega subito le dimensioni modeste, ma quello che più colpisce nei muschi è la struttura d’insieme, ad “alberello”, e le foglie, del tutto ignote alla civiltà delle alghe.

L’invenzione non è da poco, tant’è che i botanici dividono oggi il regno vegetale in due sottoregni : quello delle Tallofite, le “piante arcaiche”, come i batteri, le alghe, i funghi, o i licheni, con un corpo a lamina più o meno differenziata, e quello delle Cormofite, le “piante moderne”, che vantano radici, fusti, e foglie disposte ad arte in uno spazio tridimensionale.

Scoperta rivoluzionaria, se si pensa che per fare la stessa fotosintesi, una quercia alta 25 m dovrebbe, col metodo delle alghe, stendere al sole e al vento un’enorme lamina fogliare di 1200 m².

Alcune piantine di muschio mostrano sulla cima un lungo ed esile peduncolo con una capsula. Contiene le spore. Queste, disseminate a maturazione dai contorcimenti del peduncolo, che reagisce come un igrometro all’umidità atmosferica, sono formate da una sola cellula con metà cromosomi della pianta madre.

In particolari condizioni le spore germinano dando luogo a un tallo allungato, simile a un’alga filamentosa, il Protonema, da cui spuntano i minuscoli “alberelli” del tappeto che in primavera portano i corpi riproduttori maschili, gli Anteridi, piccole “clave” da cui nascono gli spermatozoidi, o delle strane “bottiglie” dal collo lungo e stretto, gli Archegoni, contenenti la cellula uovo.

L’iniziativa spetta come sempre ai maschi. Dopo la pioggia, quando il tappeto è ben fradicio, escono a nuoto, a migliaia, con le loro ciglia mobili, e raggiungono le compagne fecondandole.

Con l’unione il bagaglio cromosomico raddoppia, e l’uovo germina sul posto, come un parassita della pianta madre. Un essere senza foglie, perché il muschio, senza vasi, non ce la farebbe ad alimentarlo d’acqua; un piccolo E.T. con una sola idea in testa : produrre il peduncolo e l’urna con le spore. Questa, dalla forma tipica per ciascuna specie, presenta dei minuscoli “denti” in legno, igroscopici, fatti apposta per aprirla, a maturità, nelle migliori condizioni atmosferiche.

Una strategia vincente, che li ha portati quasi immutati fino a noi, ma col limite della taglia, e del fatto che possono riprodursi solo quando piove.

Il loro grande merito è d’aver inventato le foglie, e scoperto il legno per i dentini delle capsule, ma non hanno saputo sfruttarlo appieno, come la grande civiltà delle felci.

Quest’ultime, che prosperarono su per giù nello stesso periodo, con un massimo di diffusione circa 300 milioni d’anni fa, utilizzarono infatti la lignite per costruire degli organi di sostegno e un vero sistema circolatorio : tubi che portano l’acqua dal suolo alle foglie e alimentano di linfa zuccherina tutti i vari organi della pianta.

Anche se l’invenzione dei vasi legnosi spetta forse ad altri gruppi oggi estinti, a specie come l’ Aldanophyton antiquissimum, scoperto solo nel 1953 in Siberia nelle rocce del Cambriano vecchie di 500 milioni d’anni, o a piante senza foglie, come i Psilophyton e le Rhynia, simili a giunchi, diffuse circa 400 milioni d’anni fa, è principalmente con le felci che gli alberi preistorici raggiungono performance paragonabili alle attuali.

Vere radici, veri tronchi, e grandi foglie. Un gruppo di successo, molto duttile, che vanta ancora oggi accanto a specie giganti, mini-felci simili a fili d’erba, specie galleggianti a mo’ di zattere, e strane piante epifite, i Platycerium, che formano sugli alberi dei tropici e nelle serre dei fioristi eleganti “nidi di foglie” a corna di cervo.

In comune hanno tutte la stessa strategia riproduttiva.

Anche qui, come per i muschi, si parte da minuscole spore, con un numero dimezzato di cromosomi, che germinano dando luogo ad una lamina cuoriforme detta Protallo. Una struttura non più grande di 3-4 cm, anche nelle specie di maggior taglia, come le Dicksonia o le altre felci arboree giganti, che, simili a palme, superano ancora i 20 m d’altezza.

Ma a differenza del tallo dei muschi, questa lamina non genera “alberelli” : porta direttamente in alto gli Archegoni e in basso le Anteridi. Stessa nuotata degli spermatozoidi, pioggia permettendo, ma la nuova pianta che nasce dalle nozze non vive come un parassita “in economia” sul protallo, affonda le radici nel terreno e cresce autonoma, rigogliosa, creando le belle fronde traforate che tutti ammiriamo.

Secondo i botanici sono “foglie incomplete”, tant’è che si fondono in una lamina compatta in specie come gli Asplenium dei tropici o la nostra Phyllitis scolopendrium. Da giovani si srotolano tutte elegantemente come “pastorali”, e portano in genere a maturità, sulla pagina inferiore, delle macchie scure, degli arabeschi formati da tanti puntolini detti Sporangi. Al microscopio sembrano scrigni, e si aprono, in modo analogo alle capsule dei muschi, liberando le spore.

Piante che guardano indietro, al mondo delle alghe, e che come queste hanno bisogno d’acqua per riprodursi, ma con strutture già moderne, con organi sempre più funzionali e specializzati.

Gli Equiseti, parenti prossimi delle felci, noti anche come “code di cavallo” o “code di gatto”, in auge fra i 200 e i 130 milioni d’anni fa con specie giganti, portano ancora più in là la “divisione dei compiti”.

Prendiamo il comunissimo Equiseto dei campi (Equisetum arvense) : lo stesso piede, la stessa pianta, reca in primavera dei rami senza clorofilla, che portano una sorta di “pigna” allungata colma di spore, e d’estate dei rami sterili, di un bel verde, che fanno la fotosintesi e accumulano gli zuccheri in un organo sotterraneo di riserva.

Ma le sorprese non finiscono qui : le spore, del tutto identiche, con quattro curiosi tentacoli igroscopici detti Elateri, possono dar luogo, secondo il terreno in cui cadono, a protalli maschio o protalli femmina.

Il sesso, indeterminato alla nascita, dipende infatti dalla ricchezza del suolo : quando è fertile, e quindi in grado di nutrire molte piante, nascono più femmine, e se è povero i protalli sono quasi tutti maschi, nella speranza che una pioggia pietosa porti qualche principe azzurro allo sbaraglio fino alla bella che attende lontana in una zolla più propizia.

Sulla funzione degli Elateri, sono nate molte ipotesi. Da un lato servono, come vele al vento, per andar lontano, e poi, intrecciandosi a catena, fanno si che questi strani protalli unisessuati, non germinino troppo distanti per le nozze.

La Selaginella, una pianta esotica imparentata coi licopodi, frequente per le sue piccole fronde decorative nelle serre dei fioristi, porta ancora più avanti la differenziazione sessuale, producendo su un cono, come gli equiseti, migliaia di Microspore maschio in alto, e 4 grosse Macrospore femmina, con riserve nutritive, in basso.

Si potrebbe quindi individuare la seguente linea evolutiva : prima le felci con i sessi uniti su un’unico protallo; poi gli equiseti con spore non differenziate, ma protalli sessuati; e poi le selaginelle, con spore calibrate secondo la funzione e protalli sessuati.

Una bella ipotesi, nel senso di una sempre maggior efficienza della natura, se non fosse che le selaginelle e i licopodi, diffusi oggi qua e la con una predilezione per le dense foreste pluviali, hanno fossili più antichi delle felci, e che in più il loro corpo mostra evidenti segni d’arcaismo, come le foglie minuscole e la divisione dicotomica dei rami.

Si deve quindi concludere che l’evoluzione sessuale delle prime piante terrestri non è andata di pari passo col loro aspetto.

Alcuni gruppi hanno privilegiato il sesso, altri il portamento. Ma all’interno di ciascun gruppo, gli organi sessuali si sono comunque affinati nel senso indicato.

Gli antenati delle selaginelle attuali, diffuse prima dei muschi e delle felci nel Devoniano, circa 400 milioni d’anni fa, non avevano per esempio come questa spore e protalli con sessi separati; e alcune felci acquatiche odierne, come la Salvinia, pur appartenendo a un gruppo arretrato sessualmente, vantano spore e protalli sessuati.

Va infine aggiunto che se l’evoluzione premia in genere i precursori con una discendenza infinita, degna dei figli d’Abramo, le piante preistoriche giunte miracolosamente fino a noi non sono necessariamente le migliori. Un importantissimo gruppo di licopodi e felci, oggi estinte, portarono per esempio ancora più in la il discorso della protezione della prole, con l’invenzione dell’ovulo e del seme, e questa nuova avventura sarà l’oggetto della prossima puntata.

 

Così le piante hanno scoperto l’amore.

 

jpg_evolu7.jpg

jpg_evolu8.jpg

jpg_evolu9.jpg

PEPPINO.gif
Texto © Giuseppe Mazza

 

Uno dei grandi assi evolutivi della natura è la protezione dell’infanzia; e dopo essere sbarcate sulla terra ferma, e aver inventato le foglie e il legno, circa 300 milioni d’anni fa le piante operarono un salto di qualità in questo senso.

Dall’esame dei fossili risulta che un parente prossimo della Selaginella il Lepidocarpon, una specie effimera che si estinse nel Carbonifero, non disseminava più al suolo le 4 macrospore. Tre abortivano e la quarta germinava sulla pianta, dando luogo a un protallo protetto dal macrosporangio e da una squama.

Parallelamente, nello stesso periodo, accanto alle felci normali, si sviluppano delle felci, a prima vista identiche, che accentuano questa tendenza. Il macrosporangio viene inglobato da alcune foglioline che si saldano per formare un “tegumento”, e si trasforma lui stesso in un organo protettivo, detto “nocella” (dal latino “piccola noce”), al cui interno si sviluppa il protallo femminile. Una struttura nuova e compatta, che offre una doppia protezione al nascituro, e viene detta “ovulo”.

Anche le microspore germinano sulla pianta, dando luogo a dei granuli di “polline”; e il principe azzurro non giunge più a nuoto, ma con queste mini capsule spaziali portate dal vento.

Atterra su un minuscolo orifizio dell’ovulo, detto “micropilo” (dal greco “piccola porta”), penetra nella nocella e raggiunge la bella fecondandola. Le nozze avvengono così lontane dall’ambiente esterno, al riparo dalla siccità che esplose drammaticamente nel Permiano, quando col ridursi delle precipitazioni, gli stagni e i laghi si prosciugarono.

Le “felci a ovuli” si sono estinte verso la fine dell’era secondaria, e per avere un’idea dei loro grandi organi riproduttivi, dobbiamo oggi guardare a una pianta loro contemporanea, il Ginkgo (Ginkgo biloba), che ha il raro privilegio d’essere l’unico rappresentante di una Classe, di un Ordine, di una Famiglia e di un Genere. Un “fossile vivente” giunto miracolosamente indenne fino a noi dal Giurassico.

Le sue belle foglie a ventaglio, si dividono in due lobi, segno inequivocabile d’arcaicità (la struttura dicotoma risale come abbiamo visto alle alghe), ma il fatto che cadono in autunno, dopo aver coperto l’albero di una cascata di monete d’oro, è già un carattere dei tempi moderni. I sessi sono separati, e caso unico nel mondo verde, riconoscibili a prima vista dal portamento. I maschi del Ginkgo sono infatti slanciati come abeti, e le femmine più ramificate e basse.

Il Signor Ginkgo in primavera affida al vento un numero incredibile di granuli di polline, e la Signora Ginkgo li attende con una gocciolina di liquido vischioso sui micropili. I granuli di polline vi si appiccicano, e allora lei ritira il liquido in una cameretta nuziale, dove le sfere volanti si aprono. Da ciascuna escono due spermatozoidi mobili, che impiegano sei mesi per raggiungere l’archegone. Nel frattempo l’ovulo, una sorta di ciliegia gialla, sarà caduto al suolo.

Appena fecondato l’embrione cresce subito rigoglioso, utilizzando le riserve dell’ovulo, ed è qui la grossa differenza con le moderne piante da seme : i semi per germinare possono attendere anche centinaia d’anni, gli ovuli no. Una differenza sottile che fino agli inizi del secolo non era stata colta dai botanici.

La scoperta dell’ovulo e la scoperta del seme sono due tappe separate da circa 30 milioni d’anni.

E se si può fare un paragone col mondo zoologico, le piante da ovuli sono l’equivalente degli animali ovipari, mentre quelle da seme, più evolute, degli animali placentati. Il seme resta infatti unito fino a maturità alla pianta madre, e vi trae il nutrimento con un organo che i botanici chiamano non a caso “placenta”. Ma soprattutto il seme, con l’embrione in vita latente, permette alle piante quella “fuga nel tempo” che è il sogno, per ora irraggiungibile, dell’uomo. Poter dormire per secoli, senza invecchiare, nei lunghi viaggi spaziali, o nell’attesa che i progressi della medicina trovino un rimedio a malattie oggi incurabili.

Alcuni semi, prelevati da erbari vecchi di oltre tre secoli, si sono rivelati vitali; ed altri, conservati al fresco nelle torbiere, hanno germinato dopo 1000 anni. Un ulteriore vantaggio delle piante da seme, sta poi nel fatto che portano a maturazione solo gli ovuli fecondi, che non sprecano cioè energia, come le galline, per creare delle uova sterili.

Di queste “piante ovipare”, un tempo molto diffuse, abbiamo ancora qualche rappresentante nella famiglia delle Cicadaceae. Anche qui i due sessi sono separati.

La Signora Cycas revoluta, la cui parentela con le felci arboree da ovuli pare probabile (portamento analogo e foglie in crescita arrotolate all’apice), attua anche lei la tecnica della gocciolina vischiosa. Qui gli ovuli non sono portati da un picciolo, ma crescono sotto speciali foglie dorate, ripiegate su se stesse a formare una sorta di cavolo. Per dieci giorni, quando la Signora è feconda, queste si sollevano leggermente per lasciare entrare il polline, e poi si richiudono portando a maturazione, come nel Ginkgo, anche gli ovuli che non hanno avuto la fortuna d’incontrarlo.

Ancora una volta, come nelle favole, sotto i cavoli nasce la vita, e in questa strana struttura protettiva fogliare, né molle, né dura, i botanici trovano già il “progetto” per le pigne delle conifere, che si limitarono a miniaturizzare quest’ossatura, rendendola più consistente.

E del resto, anche il sesso del Signor Cycas revoluta non è poi tanto diverso da una pigna. Si drizza in una struttura fusolare appuntita di 30-40 cm, e s’infiamma a tal punto d’amore che la temperatura al suo interno sale di 10° C. Alza le squame, mostra le sacche polliniche, e libera un po’ alla volta al vento 5 miliardi di granuli di polline.

Visibili ad occhio nudo, gli spermatozoidi cigliati di questa specie sono i più grandi della natura : misurano circa 1/3 di mm e impiegano 4 mesi per raggiungere la cellula femminile all’interno dell’ovulo. Anche qui la fecondazione vera e propria avviene poi spesso al suolo.

Le Cicadaceae, tanto diffuse nel Mesozoico da rappresentare oltre un terzo della flora terrestre, sono oggi sparpagliate nelle aree tropicali e subtropicali con 10 generi (un undicesimo pare sia stato scoperto in Colombia) e circa 130 specie. Sono tutte piante dioiche che affidano il polline al vento, ma alcune specie sudafricane come l’ Encephalartos villosus e l’ Encephalartos altensteinii, hanno stretto anche un patto con gli insetti per il trasporto pollinico.

Il loro partner è un curioso coleottero curculionide, l’ Antliarhinus zamiae. Le femmine frequentano i coni maschi, attirate, sembra, dal calore e dall’odore che emanano, e poi, infarinate a dovere, si spostano sui coni femmina per deporvi le uova. Esplorano ogni fessura dello strobilo, fecondando gli ovuli con la lunga proboscide, ed anche se le loro larve ne distruggeranno alcune, evoluzionisticamente è comunque un grosso passo avanti rispetto all’impollinazione anemofila. Forse iniziò così, milioni d’anni fa, l’avvincente collaborazione fra insetti e piante.

La crescita delle Cicadacee, per lo più relegate in luoghi inospitali, dove la vita è difficile e quindi minore la concorrenza delle piante moderne, è incredibilmente lenta : 5-10 cm all’anno per le poche specie che sopravvivono nei climi caldo-umidi, e meno di 0,5 cm per quelle d’ambienti aridi. Se a ciò si aggiunge che spesso l’impollinazione è difficile, perché le piante dei due sessi sono troppo lontane fra loro, si può facilmente capire come, fin dai tempi antichi, le attività umane abbiano dato un colpo di grazia ai resti di queste piante preistoriche.

I semi della Macrozamia spiralis venivano sistematicamente raccolti dagli aborigeni australiani per ricavarne una farina; ed i poveri Encephalartos del Sudafrica non avevano certo una miglior sorte, perché gli indigeni, oltre ai semi, si mangiavano anche la parte superiore dei fusti, ricca d’amido (Encephalartos viene da EN = interno, KEPHALE = testa e ARTOS = pane).

A differenza del Ginkgo, protetto fin dall’antichità dall’uomo, che lo piantava a boschetti intorno ai templi buddisti, e lo venerava, convinto che tenesse lontani gli incendi, le Cicadaceae, di casa per lo più in ambienti poveri, furono quasi ovunque selvaggiamente distrutte.

Una rara eccezione ci è offerta in Sudafrica, nel Lebowa, dalla spettacolare foresta d’ Encephalartos transvenosus di Modjadji, 300 km circa a nord di Johannesburg. Qui, su una montagna sacra, custodita per secoli dalle Regine delle piogge, abbiamo oggi la più grande concentrazione di Cicadacee del mondo. Alcuni alberi, alti 12-13 m, superano i 1000 anni e gli ordinati sentieri dell’attuale riserva non tolgono nulla al fascino d’un tuffo nel Mesozoico.

Un’altra grande specie del Natal, l’ Encephalartos woodii, risulta invece purtroppo estinta in natura. Si sono salvati solo due maschi adulti, guardati a vista, nell’orto botanico di Durban, ed anche se da alcune gemme dormenti sono state isolate due o tre piantine, non essendoci più femmine, si può ben dire che è la specie arborea più rara del mondo.

Ma torniamo all’evoluzione ed alla scoperta del seme, opera, sembra, di piante affini alle conifere.

Prendiamo per esempio il Tasso. È una specie dioica, come il Ginkgo e le Cicadaceae, ma a differenza di queste, mostra un granulo di polline più evoluto. Dopo aver raggiunto il micropilo dell’ovulo non emette più degli spermatozoidi cigliati, ma questi attraversano la nocella, più consistente, per mezzo un “tubo pollinico”. Dopo la fecondazione, l’embrione cessa ad un certo punto di svilupparsi e si disidrata nell’attesa del momento migliore per germinare. Nel frattempo il suo tegumento si trasforma in un’espansione carnosa, l’arillo, che lo rende simile a una bacca rossa, donde il nome scientifico della specie di Taxus baccata.

Non è ancora un frutto, ma poco ci manca. Gli uccelli ne vanno ghiotti e lo trasportano lontano con grande sollievo di mamma Tasso, che così non rischia più di trovarsi in concorrenza coi figli.

I Pini e i Larici, per certi versi più moderni, portano i due sessi sulla stessa pianta (è curioso come all’origine i sessi fossero separati nelle piante e uniti negli animali, e come poi l’evoluzione abbia capovolto la cose !). I microsporangi e i macrosporangi sono assemblati nelle strutture coniche che tutti conosciamo dette pigne.

Quelle maschili emettono nuvole di polline, affidato al vento, e quelle femminili portano due ovuli per scaglia. Queste come nelle Cicadacee si sollevano per l’impollinazione, e poi si chiudono, saldandosi l’un l’altra in una struttura compatta destinata in genere ad aprirsi nel secondo anno per disperdere i semi.

Una formula vincente che ha generato tutte le conifere che conosciamo diffuse in terre freddissime ma anche ai tropici con specie come le Araucarie che formano estese foreste nell’emisfero sud.

Il passo successivo, la protezione del seme in un frutto, si può già intravedere in altre due Gimnosperme (dal greco “seme nudo”), la Welwitschia e l’ Ephedra, piante diversissime, ultimi rappresentanti dei gruppi che operarono la transizione verso le Angiosperme (dal greco “seme con involucro”).

Nella Welwitschia, sopravvissuta per miracolo nel deserto della Namìbia (vedere il servizio specifico pubblicato su SCIENZA & VITA), gli ovuli sono già avvolti da un “sacco protettore”, che si restringe in alto in un tubo, ancora aperto, perché il polline possa raggiungere il micropilo.

Nelle Ephedra, piccoli arbusti legnosi raccolti da millenni in Cina per un alcaloide, l’efedrina, dalle proprietà toniche e antiasmatiche, gli ovuli, dotati di un becco, sono rinchiusi in una “bottiglia” dal lungo collo che s’ispessisce, dopo la fecondazione, per formare un frutto carnoso rosso o giallo.

Si va verso piante in cui l’ovulo, completamente separato dal mondo esterno, viene fecondato attraverso uno stilo e un lungo tubo pollinico; piante più legate al mondo animale, che riuniranno per lo più i due sessi in una struttura unica, il “fiore”, di cui parleremo nella prossima puntata.

 

Quando i vegetali inventarono i fiori.

 

jpg_evolu10.jpg

jpg_evolu11.jpg

jpg_evolu12.jpg

PEPPINO.gif
Texto © Giuseppe Mazza

 

Ad ogni grande scoperta del mondo verde corrisponde la nascita di una civiltà vegetale.

Grazie al legno le felci dominarono la vegetazione del Carbonifero e del Permiano, fra 350 e 220 milioni d’anni fa; poi nell’Era Secondaria furono soppiantate dalle prime piante da seme, le Gimnosperme, che celebrarono il loro trionfo nel Giurassico, 150 milioni d’anni or sono, con circa 20.000 specie di Conifere; oggi queste si sono ridotte a meno di 600 specie, e le felci, che in proporzione hanno retto meglio l’assalto del tempo, devono per lo più accontentarsi di taglie modeste.

Tallofite a parte, nove specie su dieci delle attuali appartengono a un nuovo gruppo di piante, le Angiosperme, nate nelle foreste tropicali all’inizio del Cretaceo, 130 milioni d’anni fa.

Piante molto competitive, d’assalto, riempirono in breve i tropici, e dilagarono poi per mancanza di spazio verso le regioni temperate. In 20 milioni d’anni raggiunsero l’Europa, e in altri 30 milioni invasero con oltre 250.000 specie tutte le terre emerse.

Quale fu la loro carta vincente ?

Anzitutto l’invenzione dell’ovario, una “casa”, ad una o più stanze, in cui proteggere gli ovuli, destinata a trasformarsi dopo la fecondazione in un frutto; e poi l’alleanza con gli animali, specialmente gli insetti, per il trasporto del polline.

Per conquistarli, queste piante si sono in un certo senso “animalizzate”, creando una struttura variopinta, il fiore, del tutto estranea al loro mondo verde.

Foglie che si colorano verso l’apice dei rami, come si può notare in specie ancora “indecise” tipo la Stella di Natale, per svolgere una funzione diversa dalla fotosintesi; petali che si trasformano progressivamente in stami, come nelle Ninfee, dove procedendo verso il centro del fiore, si assottigliano fino a diventare i peduncoli delle antere.

L’architettura della corolla svela al primo sguardo l’animale da sedurre : “Fiori da uccelli”, di grandi dimensioni, per lo più rossi o viola, come le Passiflora e gli Hibiscus, che ricchi di nettare portano i loro organi sessuali su un peduncolo, lontani dal becco dei loro famelici partner, o come la Freycinetia funicularis, che pur di riprodursi offre stoicamente agli uccelli insalatine di brattee carnose e succulente; “Fiori da topi”, ricchi di zucchero, tipo la Banksia petiolaris ed altre Proteacee che fioriscono raso suolo; “Fiori da pipistrelli”, come quello del Baobab o dell’inquietante Couroupita guianensis, l’ Albero delle palle di cannone, con corolle coriacee ed organi riproduttivi sensuali, animaleschi, simili ai tentacoli di un’Attinia; e naturalmente “Fiori da insetti”, come la Pratolina o la Salvia, spesso con sofisticati meccanismi d’impollinazione.

Piante crudeli, come certe orchidee, che torturano e ingannano le vespe; piante, come certe Aracee, che sequestrano e uccidono i poveri “postini pel polline”; ma anche piante gentili, tipo l’Ippocastano (Aesculus hippocastanum), che per facilitare il compito delle api, segnala la presenza del nettare nei fiori con una macchietta gialla, che sfuma al rosso quando il “serbatoio” è vuoto.

Ma la natura non rinuncia mai del tutto alle vecchie strade, percorse con successo per millenni, e accanto alle Angiosperme zoofile, non mancano quelle anemofile, “conservatrici”, che vivendo gomito a gomito in grandi concentrazioni, dove l’impollinazione è facile, o in climi freddi, dove gli insetti scarseggiano, continuano, come la precedente civiltà delle Conifere, a servirsi del vento per il trasporto pollinico.

È il caso delle Graminacee, per esempio il Mais (Zea mays), con stami portati da lunghi filamenti che fremono al minimo spostamento d’aria, e delle “piante a gattini”, come il Nocciolo (Corylus avellana) o il Pioppo (Populus nigra), con fiori riuniti in amenti ondeggianti, che spuntano prima delle foglie per disperdere meglio, senza ostacoli, quantità impressionanti di polline. 5 milioni di granuli per un solo gattino di Betulla; 500 milioni a stagione, con le ben note conseguenze allergiche, per un solo albero di Nocciolo.

In questi casi le corolle ovviamente non servono, perché non c’è nessun partner da sedurre, ma si tratta nell’insieme di minoranze esigue.

Per le Angiosperme tipiche, i petali sono l’apparato pubblicitario del fiore, posto intorno agli organi sessuali, a réclame di un buon nettare, secondo uno schema ben preciso. All’esterno delle foglie trasformate, i sepali, che riparano il fiore in boccio; al centro l’ovario che contiene gli ovuli, ereditati dalla civiltà delle Conifere, protetti da più rivestimenti inventati dalla civiltà delle felci; e dentro la preziosa cellula femminile ereditata dalla civiltà delle alghe. Nell’apparato riproduttore delle piante da fiore, si può leggere, come nelle varie componenti del cervello dei vertebrati superiori, la storia dell’evoluzione.

Gli organi maschili, detti stami, portano due microsporangi, le antere. Sono i “testicoli” delle piante, e formano migliaia di granuli di polline, “mini navicelle spaziali” fatte per atterrare sullo “stigma”, la parte terminale dello “stilo”, una sorta d’ “antenna televisiva” a baffi o a sfera, collegata all’ovario dove alloggia la cellula femminile.

Destato da una secrezione ormonale, il polline germina, ed emette per raggiungerla un lungo “tubo” che si fa strada nello stilo. Una trovata che era già delle Conifere, ma rispetto a quest’ultime, le Angiosperme sono molto più focose, e i maschi avanzano 1500-2000 volte più in fretta.

Raggiunto l’ovulo, dal tubo escono due spermatozoidi e accade una cosa stranissima, tipica di queste piante, e talmente particolare da far pensare che tutte le Angiosperme abbiano avuto un antenato comune : uno dei due spermatozoidi si unisce con la cellula femminile, per creare come sempre un uovo con 2n cromosomi; e l’altro si fonde con due cellule del sacco embrionale, per fare un uovo speciale con 3n cromosomi. Le due entità evolvono separatamente, ma mentre il primo uovo genera l’embrione, il secondo, nutrito attraverso la placenta dalla pianta madre, forma un tessuto con tre corredi cromosomici detto “albume”, un vero e proprio latte condensato, molto energetico, destinato a nutrire nei primi tempi la piantina e a dargli la forza per costruire una radice.

E quindi il padre, seppur a titolo postumo, contribuisce, in netto contrasto con quanto avviene nel mondo animale, all’allattamento della prole.

Per il resto le avventure amorose del mondo verde non si discostano poi tanto dalle nostre. Ai maschi spetta l’intraprendenza, l’avventura di un viaggio difficile, e una serrata gara coi rivali per la conquista della sposa; e le femmine, pur restando “in casa”, nel ventre del fiore, tirano i fili, e come sempre conducono abilmente il gioco.

Le papille del loro stigma scartano anzitutto meccanicamente, come una serratura le chiavi false, i granuli delle altre specie, e poi emettono particolari secrezioni zuccherine, eccitanti solo per il loro tipo di polline. Ma non si fermano qui. Quando ha inizio la grande gara dei tubi pollinici, fanno una guerra chimica ai consanguinei, e scelto il loro Principe azzurro, quello col corredo cromosomico migliore, lo aiutano nella corsa con speciali emissioni ormonali.

Certo, con i due sessi uniti in un’unica struttura, l’incesto è sempre in agguato, ma i vantaggi sono enormi. Quando infatti sono separati, il che avviene solo nel 10% dei casi con specie dette “dioiche”, come i Salici, i Pioppi, o l’Ortica, le piante maschio dopo la fecondazione non servono a nulla, e a parità di terreno la produzione di semi è dimezzata.

Meglio quindi rischiare, sommando magari degli handicap, ma in teoria anche dei caratteri favorevoli, tanto più che la natura elimina poi prontamente i tarati, cancellando con la morte i suoi errori.

E non mancano specie, come la Nigella damascena, dove, se lo sposo non giunge, a un certo punto lo stigma si ripiega verso le antere autofecondandosi.

Le piante da fiore si danno comunque in genere da fare, con varie tecniche, per ridurre al massimo gli accoppiamenti consanguinei. Alcune specie come il Timo, la Lavanda, e certe varietà di Mele o Pere, sono autosterili : riconoscono cioè da una sostanza proteica il proprio polline, e gli impediscono di germinare; un’altra astuzia consiste nel far maturare gli stami e i pistilli in tempi diversi, in modo che le femmine siano ricettive solo quando i fratelli hanno disperso tutto il polline; e nei fiori da insetti, vi sono spesso “separazioni meccaniche” molto efficaci.

Le Angiosperme più antiche, stando ai fossili, non appartengono ad una linea comune, ma a gruppi molto diversi come le Palme, con infiorescenze spesso enormi, i Salici con fiori ridotti ai minimi termini (antere o stili) addossati l’un l’altro su un gattino rigido, a mo’ di pigna, ma già dotati di un nettare per sedurre gli insetti, e le Magnolie, che con analoga disposizione verticale portano al centro, su una struttura conica, gli stili, circondati in basso dagli stami. Poi questi cadono, e i frutti rossi, sporgenti, vengono al mondo senza protezione.

Questo vistoso ricettacolo delle Magnolie, è presente in dimensioni ridotte anche nei Ranuncoli e nelle Fragole, dove i “semini” sono in realtà i frutti, e quello che mangiamo il supporto, ma tende a ridursi in piante più evolute, fino a diventare piatto nell’ Olmaria, e concavo, con un piccolo orifizio, nelle Rose, per saldarsi poi su se stesso nel frutto del Melo, che offre così la massima protezione ai semi.

I frutti delle Angiosperme sono quanto mai variabili, ed anche se ciascuna famiglia di piante ha in genere delle precise idee in merito, non vi è una stretta correlazione con la forma del fiore.

I botanici distinguono anzitutto i frutti secchi da quelli carnosi.

Fra i primi separano poi quelli duri e compatti, detti “Acheni”, tipo il Girasole o il Tarassaco, da quelli deiscenti, come le “Capsule” degli Iris, dei Pittospori, o dei Papaveri, i “Legumi” dei Piselli, le “Silique” della Violacciocca, ed i “Follicoli” dell’Oleandro.

Fra i secondi distinguono le “Bacche”, i frutti coi semini dentro, come l’uva, il Ribes, o i Fichi d’India; le “Drupe”, con un solo nocciolo, come le ciliegie, le albicocche o le noci; e il “Pomo”, una forma intermedia fra la drupa e la bacca, tipica del Melo e del Pero.

E vento a parte, se le piante si servono principalmente degli insetti per il trasporto pollinico, è ai vertebrati che affidano con frutti gustosi, dal colore spesso attraente, il compito di disperdere i semi : deiezioni, dopo un oscuro transito intestinale; noccioli non commestibili scartati lontano dalla pianta madre; scorte alimentari ammassate in eccesso o abbandonate per sbadataggine e incidenti.

Vi è, come abbiamo visto in queste puntate, una stretta correlazione fra tutti gli esseri viventi, nati quasi certamente, nella notte dei tempi, da un antenato comune.

E se si giunge a una visione d’insieme, sempre più difficile ai nostri giorni in cui la super specializzazione spinge gli studiosi alla “miopia”, fino a “sapere tutto di niente”, ci si rende conto come il “mondo verde”, della clorofilla, non è poi così distante dal nostro “mondo rosso” del sangue.

Ne deriva una grande lezione d’umiltà e di fratellanza, quella per esempio di San Francesco, e s’intravede un disegno generale, un’intelligenza della natura di cui la nostra è un corollario consapevole.

Si capisce come la creazione o l’evoluzione non sono fatti del passato, ma si svolgono ogni giorno sotto i nostri occhi, con una logica che non è sempre la nostra, seguendo, come un computer, un “programma” che non abbiamo scritto noi.

Come saranno le piante del futuro ? Difficile dirlo, e al punto in cui siamo dipenderà anche dall’uomo. Pare comunque evidente che il “filo d’Arianna” della storia delle piante è la protezione dell’ovulo e quindi della prole; e nelle foreste tropicali, laboratori da sempre della vita, crescono forse già le specie che domineranno la terra del domani.

Vogliamo tentare, in questo senso, un’anticipazione di cento milioni d’anni ?

Nell’oscura famiglia delle Monimiacee, lontani parenti delle Magnolie, l’Hennecartia dell’Argentina e la Tambourissa del Madagascar, hanno già inventato, per esempio, una nuova protezione intorno ai fiori : un edificio in cui questi sbocciano al sicuro, e i frutti si sviluppano tranquilli “pre-imballati”. Ma anche il nostro Fico è una pianta d’avanguardia. Le sue minuscole corolle crescono all’interno di una struttura carnosa, che chiamiamo “frutto”, con una piccola porta d’ingresso per l’impollinatore, mentre i veri frutti, ben protetti, sono i “semini” che troviamo dentro.

 

SCIENZA & VITA NATURA  – 1992